Lucciole come stelle: il cuore delle parole

A cosa serve studiare il latino ? Detto così, sensu lato, la domanda coinvolge la conoscenza della cultura latina in toto. E quindi si apre lo scenario dei secoli, dei grandi autori latini che hanno nutrito nel tempo il pensiero e l’immaginario dei popoli europei. Miti, storia, coordinate dell’etica e della metafisica atteggiamenti dell’anima che sono il nostro passato, che sono la nostra memoria, il magma del nostro presente.

Ma è già nelle nostre parole, prima di essere nel filo dei racconti, nell’organizzazione, nella struttura delle scritture, che il magma si distribuisce in scintille che è patrimonio di ogni europeo d’Occidente e con immediata trasparenza di ogni europeo che sia di lingua romanza. Le parole sono ‘valigie’ diceva Armand Abecassis : contengono cioè strati di informazioni, oggetti ed immagini. È chiaro che conoscendo la lingua madre dell’italiano, cioè il latino, le stesse parole italiane dove il tempo ha sbocconcellato alcuni suoni, ha offuscato i riferimenti e i collegamenti, o le ha portate alla deriva senza più l’aggancio dell’origine, si acquista la capacità di ricostruirle immergendole nel fiume della lingua che sempre scorre, muta, è altro, rimanendo integro. Il grande glottologo Vladislav Illič Svityč così si esprimeva nella lingua ricostruita che voleva rappresentare la macrofamiglia degli indoeuropei, camiti, semiti, il nostratico (quasi un riflesso di Mare Nostrum): “ la lingua è un guado attraverso il fiume del tempo./ Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati./ Ma coloro che hanno paura delle acque profonde / non potranno mai raggiungerla” . Non si tratta di cercare l’etimologia delle parole nel senso che propugnava l’antica scuola degli Stoici : etimo, cioè verità della realtà racchiusa nel suono stesso, nell’insieme di sillabe della parola (questo può essere possibile solo per le parole onomatopeiche), ma si tratta di ritrovare la mappa delle prime sensazioni di fronte al mondo che sono state comuni a molte popolazioni e che sono nel patrimonio genetico – questo ci interessa – della nostra lingua. Proviamo a guardare dentro le parole, per riconoscere quella mitologia – come diceva Wittgenstein – che in esse si è depositata .Dentro la parola fato, c’è il verbo latino di dire for che svela che il fato è ‘ ciò che è stato detto, stabilito’: il latino parafrasa anche con dicta lex: la legge ‘stabilita’ che governa il mondo. Ma su ‘fato’ sentiamo subito che si profila la fata (fr. fée, ingl. fairy, sp. hada, ted. Fee, russo feia), le fate che compiono il ‘destino’, i volti divini delle Parche che il verbo latino pario affianca subito alla nostra ‘nascita’ ,e che i Celti esaltavano con il rito della tavola imbandita per le fate vicino alla stanza della partoriente. Sono le fate altresì che portano doni a Rosaspina (o Dornröschen) e che la fata cattiva (quasi l’Atropo nella cultura greca e latina) condannerà all’apparente morte quando si pungerà sul fuso di un arcolaio. È sempre lo stesso simbolo del fuso che giace sulle ginocchia di Ananke (ovvero la Necessità o Fato che a tutto presiede) e che Platone ricorda nel mito narrato a chiusura della sua Repubblica, dove aggiunge i colori di luce e il canto delle Sirene. Che meraviglia sentirsi tuffato nei millenni da una singola parola e raccogliere fantasmi di emozioni!

Faccio un altro esempio. Qui la ricerca stessa del radicale apre alle future interpretazioni del concetto di cui il segno si fa portatore: la parola tempo, fr. temps, ingl. time, sp. tiempo, ted. Zeit. Due radicali si contendono il nucleo del pensiero: si tratta di leggervi un ‘ritaglio’, un segmento (sc. della durata) come sembra evidenziare meglio il tedesco Zeit e quindi il radicale è quello stesso di greco tem- no, tagliare, cfr. lat. templum, lo spazio ritagliato dove gli indovini traevano auspici (guardiamo anche qui dentro la parola: aves inspicere) controllando il volo degli uccelli; o invece si tratta di ritrovare nel termine tempo il radicale del greco tei-no, lat ten- do? Nel primo caso il tempo-segmento suggerisce di per sé la filosofia del tempo-istante, il to exaifnes di Platone, il nun aristotelico, o come dirà Celan ‘enteufelter Nu’, la stigmé di Leonida di Taranto, il punctum temporis di Seneca (che poi il filosofo stoico immerge nel fiume dell’aevum, nella rapina cosmica), il punto nero sulla striscia bianca di Bachelard. Il secondo radicale ci porta alla considerazione già intrinseca di quella che sarà la riflessione agostiniana sul tempo come ‘distensione’, la ‘durata’, la ‘dilatazione, la scia coscienziale di Bergson, dove la striscia nera inghiotte il punto bianco dell’istante. Il radicale di ‘tempo’ permette due possibilità, e dentro queste l’uomo si muove da sempre, ma resta mistero l’implicatissimum aenigma della riflessione di Agostino.

Se il tempo ‘psicologico’ sembra sfuggirci nella sua relazione tra l’io e il mondo , il tempo fisico, però, si può misurare e una volta a questo scopo c’era la luna (stesso radicale di lux, del greco leucòs , brillante, bianco) ma questa funzione dell’astro (di cui il latino luna – it.luna, fr.lune- vuole sottolineare solo la sua luminosità) rimbalzava subito evidente per i Greci quando chiamavano la luna méne, come è per l’inglese Moon, o il tedesco Mond: questo è lo stesso radicale del latino men- sis (fr. mois, ingl. month, ted. Monat), e ci viene chiarito dal verbo latino metior, cioè misurare.

Ci siamo limitati a questi esempi ma in tutte le parole brilla una piccola luce, come di una lucciola, che è capace di svelarsi come luce di stelle, e ci fa navigare in spazi lontani e risale fino a noi: non dobbiamo dubitare. Dubitare (identica forma in latino), che splendida parola: dubitare, ‘essere due’ (cioè sentirsi diviso in due di fronte a un giudizio, a una decisione); riconosciamo il radicale di ‘due’ e –bi- che altro non è se non la traccia del verbo ‘essere’ , con il radicale che permane in questa forma fonetica nell’inglese to be, nel tedesco ich bin, nel russo byt’. In latino questo radicale , che vive nella formazione dell’imperfetto in        –bam o del futuro in –bo , esaltando in spirante l’originaria aspirata bh dà luogo in sede iniziale alle forme fio (o ‘essere’ come ‘divenire’ ), fui (è facile in questa ultima forma rileggere qui il nostro passato remoto). Vogliamo continuare? Come non riconoscere in fio, fui, lo stesso radicale del greco fusis (ovvero la ‘natura’), che noi accogliamo con il termine dotto ‘fisica’. Già nella parola ‘natura’ , andrebbe osservata la formazione in –urus che espande il concetto verso il ‘divenire’ , come è proprio del procedere della rerum natura.

Che cosa dire dell’etimo appena offuscato ma sempre vitale delle parole a confronto ‘ ricordare’ e ‘rammentare’? nei due vocaboli vive la parola ‘cuore’, lat. cor, cordis e ‘rammentare’, ‘mente’, lat .mens, mentis che ripropongono a millenni di distanza l’opposizione tra due scuole mediche che si contendevano la scoperta della sede del pensiero: il cuore o la mente. Di qui diciamo: italiano ‘a memoria ‘ ma francese par coeur ,inglese by heart. Il ‘nido’ della parola si apre anche a chi indaga sul termine ‘anima’, che risulta essere solo parente del vento: vedi greco ànemos. O solo ‘respiro’, così il sanscrito àniti. .Il latino usa la distinzione, comprovata da Lucrezio, tra animus, principio intellettuale, e anima , principio vitale che ci accomuna a tutti gli ‘animali’, o esseri viventi.

Seguendo lo scorrere della lingua latina che bagna e accomuna le rive d’Europa , abbiamo trovato la dimora degli antenati e abbiamo riconosciuto emissari e rivoli   che vanno infittendosi. I miti si sono svelati man mano che ci si è avvicinati al cuore delle parole ma non è polvere opaca quella che ci resta tra le dita ma una polvere di stelle in cui brucia ancora la scintilla di antiche emozioni . L’immortalità, forse, che solo le parole conoscono.

Emanuela Andreoni Fontecedro

Università degli Studi di Roma Tre

LA CRUSCA PER VOI , (50) giugno 2015, pp.5 -6

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