La poesia è nei suoni, nelle cadenze che soffondono eco, negli enunciati che hanno abbandonato le frasi, nel subbuglio dei vocaboli fuori linea, la poesia è nell’alone ambiguo che circonda i confini della parola, nell’opacità dei referenti. La poesia svapora tra le lettere dei vocaboli, lungo le immagini ritagliate, oltre la logica dei collegamenti, nei presupposti, nei rinvii. Tutto questo avviene dentro una lingua, nel cotesto che si è assembrato, e in un contesto culturale specifico, anche se, per quanto riguarda il contesto culturale, essa esplode spontaneamente fuori dello spazio temporale ché i concetti – si sa – sono trasferibili mentre a soffrire è proprio la sua specificità, cioè quel cotesto linguistico di cui è emanazione inafferrabile, e solo poco riproducibile, nella copia di qualsiasi traduzione.
Tradurre perciò la poesia sembra volersi dichiarare sconfitti in partenza[1]. Ma proviamo a distinguere tra quanto siamo comunque in grado di ‘ridare’ e quanto va perso ma che tuttavia può essere ‘compreso’ anche a livello di lingua. L’intraducibilità della poesia può essere controllata, anche se rimane sempre nel traduttore che traduce gli ‘immortali’, alla fine della traduzione, un certo senso di insoddisfazione, come una stella cometa la cui luminosità ci ha invaso ed è passata oltre e non abbiamo avuto modo di trattenere.
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