Echi di un discorso sacro: Pitagora nella trascrizione di Ovidio. Rifrazioni ovidiane

Nel XV libro delle Metamorfosi, Ovidio ricrea il ‘Discorso sacro’ di Pitagora, raccogliendo l’eco di una parola non scritta così come era stata recepita da quanti, nel corso dei secoli, si erano richiamati a lui e alla sua dottrina.

Il discorso si svolge essenzialmente attorno a due argomenti: il dogma dell’astinenza dalle carni e l’universale metacosmesi come proiezione-specchio e riflessione teorica della dottrina dell’anima, dottrina che, a sua volta, nell’approdo ai significati della metempsicosi spiega e assorbe l’imperativo del precedente dogma.

Seppure, evidentemente, all’epoca di Ovidio, molti secoli erano trascorsi dalla vita di Pitagora, e la non scrittura di una dottrina aveva provocato comunque libertà di comprensione e di trasmissione, sin da quando il verbo del Maestro era uscito dalla setta degli adepti, si può osservare che nel discorso sacro ricostruito dal poeta sono comunque ignorati altri fondamenti del pitagorismo, che, nelle querelles della critica, si fanno anche appartenere a quello antico, ma che diciamo sin da qui comunque appartenevano al ‘pitagorismo’ che come tale, attraverso le mediazioni pure del neopitagorismo e le fonti intermedie del tutto probabili di Nigidio Figulo e Varrone, giungeva comunque a Ovidio [1].

Tra essi: quello dell’esame di coscienza quotidiano su cui insistono ad esempio i Versi aurei (“non accogliere sui molli occhi il sonno, prima di aver esaminato ciascun atto compiuto nella giornata”, 41), testo di un discorso sacro cui si riconosce il nocciolo del pensiero pitagorico antico e che attraverso Sestio e quindi Sozione sarà precetto di Seneca (ira 3, 36); quello del Grande Anno, ben presente nel discorso di Scipione nel Somnium ciceroniano (§§ 24 e 29) e nel discorso di Anchise nel VI dell’Eneide (v. 748), testi notoriamente ispirati a Pitagora come conferma la ripresa platonica (Resp. 615a, e, con variazione delle annualità umane considerate, Fedro 248e); o quello dell’armonia delle sfere, che interessa abbondantemente le pagine del Somnium (§ 18 su cui Macr. 2, 1, 8), così come già ispirava quella trascritta da Platone nel mito di Er (Resp. 616b-617c)[2], e riemergeva, per quel che ci è dato sapere, in alcuni versi di Varrone Atacino (fr. 12 Traglia). Non è quindi rilevato il valore mistico e scientifico del numero, principio dell’Universo, si che si può postulare la mimesi delle cose tutte rispetto ai numeri (cfr. Arist. met. 1, 6, 987b, 10), su cui anche l’armonia cosmica si costruisce e che la celebre tetractys condensa, come non ignorano i Versi aurei, dove si definisce παγὰν ἀενάου φύσεως, 48[3].

 

Bastano questi esempi per osservare che è quindi molto parziale l’uso che Ovidio fa della dottrina pitagorica, e questo perché in realtà, come si constata agevolmente, Ovidio non si presta a fare il divulgatore del verbo di Pitagora ma usa soltanto – come si diceva – l’argomento di fondo del pitagorismo[4] e più divulgato che è quello della metempsicosi, che – questo è il messaggio che il poeta vuol dare – va compresa a sua volta nel valore intero della metacosmesi che la ingloba e di cui non è altro che un aspetto, secondo una linea dottrinaria del tutto coerente, in cui il poeta vuole ora inserire il suo tema di Metamorfosi.

Ecco perché uno solo è il precetto dato per l’etica, il vegetarianismo ( vv.88-90; 142-143)[5], a differenza dell’elenco dei comportamenti che leggiamo elencati nel catechismo dei Versi aurei, in quanto proprio questo rappresenta il consustanziale derivato della dottrina fisica e metafisica illustrata.

 

La metacosmesi nel discorso di Pitagora: Eraclito o Empedocle?

 

haec quoque non perstant, quae nos elementa vocamus

quasque vices peragant, animos adhibete docebo,

quattuor aeternus genitalia corpora mundus

continet, ex illis duo sunt onerosa suoque

pondere in inferius, tellus atque unda, feruntur

et totidem gravitate carent nulloque premente

alta petunt, aër atque aëre purior ignis.

Quae quamquam spatio distant, tamen omnia fiunt

ex ipsis et in ipsa cadunt, resolutaque tellus

in liquidas rarescit aquas, tenuatus in auras

aëraque umor abit, dempto quoque pondere rursus

in superos aër tenuissimus emicat ignes.

Inde retro redeunt, idemque retexitur ordo:

ignis enim densum spissatus in aëra transit,

hic in aquas, tellus glomerata cogitur unda, vv. 237-251.

 

Si tratta della trasformazione ciclica degli elementi: un passaggio di forme. È stato sostenuto dal Rostagni che il pensiero poteva appartenere già al pitagorismo antico, come percezione di un fluire incessante della materia ‘animata’ nelle diverse forme, un fluire di matrice ionica[6]. Non vogliamo ribadire questo punto, quanto sottolineare che non è in ogni caso Empedocle la fonte primaria del pensiero proposto, come sostenuto invece ancora da ultimo[7]. Empedocle non ha una visione di questo continuo plasmarsi della materia per una trasformazione di un elemento nell’altro di seguito in un ciclo quaternario incessante, quanto piuttosto nella sua dottrina vengono messi in rilievo gli elementi nella loro immutabilità di ῥιζώματα, fr. 1,53 G. La ’trasformazione’ avviene per aggregazione e disgregazione dei medesimi ma nella ‘mescolanza’ (μῖξις fr. 2,3 G. e passim) permangono in quanto immutate ‘radici’. Detto questo si può puntualizzare la non dipendenza qui di Ovidio da Empedocle, pur essendo Empedocle il filosofo dei quattro elementi (στοιχεῖα fr. 1,5 G.) del cosmo che anche Ovidio dice, ma secondo ormai una tradizione, ai suoi tempi, comunemente accolta.

Per la ‘mescolanza’ Empedocle si era così espresso: “esiste solo mescolanza di elementi e separazione di elementi” fr. 2,3 G. e ancora: ”pensa invece che è solo mescolanza di elementi e separazione degli elementi mischiati…“ fr. 5 G.

Empedocle, inoltre, aveva aggiunto alle ‘radici’ del mondo le due forze opposte di Odio e Amore (νεῖκος passim, eccezionalmente espresso con ἔριδες a fr. 4,49 G. e φιλίη o φιλότης passim), per ‘mettere in moto’ la vita stessa del cosmo, la molteplicità del divenire, forze di cui qui, nel discorso di Pitagora, non vi è traccia[8].

 

Che cosa fa ignorare questa precisazione essenziale per la comprensione di Ovidio-Pitagora e indicare con convinzione Empedocle come fonte primaria? Il fatto che Empedocle nel poema lustrale sostiene di pari passo con la sua teoria fisica e cosmologica detta nei Physica, la teoria della trasmigrazione che accompagna con il discorso del vegetarianismo. Non spetta a noi soffermarci sulla quaestio della costituzione dell’opera di Empedocle, una o separata, ma è chiaro che il discorso tenuto nel poema lustrale richiama esplicitamente Pitagora, e quindi in questo punto, anche per Ovidio, è Pitagora la fonte primaria, mentre Empedocle si presenta piuttosto come un seguace[9]. Anche se è stato messo in causa un distinguo non indifferente in termini soprattutto di differenza da porre tra metempsicosi pitagorica e metensomatosi empedoclea[10]. Il distinguo si fonda sulla non individualità dell’anima che non si avvera nella metensomatosi. Certo è che però questa affermazione è posta in seria crisi con l’affermata invece μεταβoλή, da parte di Empedocle, degli uomini migliori in δαίμονες o θεοί (frr. 103,5 e 107 G.). Rimane ancora il dubbio sul problema della memoria se per Empedocle essa permane nel flusso delle vite. Infatti non è strettamente consequenziale che la sopraddetta μεταβολή, pur invocando la ‘morale’ possa esigerla[11].

A prescindere dall’indicazione di un personaggio dalla memoria di dieci o venti generazioni, – ma è messa in discussione l’identificazione con Pitagora e se qui si tratta di memoria conservata nella successione di vite o altrimenti di indicazione di un personaggio in vita dalla memoria storica straordinaria, fr. 108 G. –, in altro testo la ‘memoria’ attraverso le vite, detta da Empedocle, sembra, però, essere più che personale solo la deduzione dottrinaria, espressa, in maniera esemplificativa, con un io generico. Infatti citando le forme di vita assunte, queste sembrano voler indicare tout court la forma di vita specifica possibile entro tutti i singoli elementi:“perché ci fu anche un tempo che sono stato un giovane e una ragazza e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce di mare”, fr. 104 G.,principio cosmogonico di base che può non implicare l’ulteriore attribuzione all’anima disincarnata della memoria: un principio di base presente altra volta anche a Ovidio in un contesto, – come vedremo appresso discutendo della cosmogonia del I libro delle Metamorfosi-, più esplicitamente ancorato alla dottrina empedoclea : neu regio foret ulla suis animalibus orba, met. 1, 72.

Mentre la memoria attribuita a Pitagora non solo da Ovidio ma da tutta la tradizione[12], è personale (Personbildende[13]) e addirittura Pitagora – così pure in Ovidio – storicizza le sue vite passate, vorrei dire ‘come presero nome’: met. 15, 161 Euphorbus eram, e questo è il valore più proprio di metempsicosi.

 

Riesaminando quindi da capo il concetto di metacosmesi e accertato perciò che comunque la metacosmesi così come descritta da Ovidio non trova ispirazione diretta in quella della mescolanza della dottrina empedoclea, per essa va confrontato un altro testo e un altro filosofo che la teorizzi.

Non posso che indicare, come già puntualizzava Carlo Pascal[14], se non Eraclito che così si esprimeva: ”metamorfosi del fuoco: dapprima mare, e metà del mare terra, l’altra metà aria infuocata“ (πρηστήρ), fr. 4 Tonelli.

Appare evidente come la dottrina eraclitea combaci con la scrittura del poeta. Per l’identificazione dell’elemento ‘aria’, tra gli στοιχεῖα di Eraclito va tenuto conto che essa avveniva già nel commento di Aristotele, per non dire degli stessi Stoici[15]. Sottolineando che comunque per Ovidio si trattava comunque di una consolidata interpretazione di Eraclito, – e non ci interessa qui, lo ribadiamo, la distinzione tra Pitagora e pitagorici e neopitagorici, per lo più posta su fragili basi di ipotesi non sorrette con trasparenza dai testi – quello che invece vogliamo sottolineare è che ciò che accomuna in maniera nitida Ovidio all’Efesio è la comprensione di una trasformazione ‘qualitativa’ degli elementi. Il riferimento alla doppia ‘via’ (inde retro redeunt, idemque retexitur ordo, v. 235) conferma la fonte eraclitea, dove si recita “via in alto via in basso una sola la medesima“ fr. 98 Tonelli[16].

Questo punto è fondamentale per proiettare nella vicenda cosmica la ‘metamorfosi’, altrettanto qualitativa, di esseri umani e ninfe in animali, piante, pietre, acque, forme vitali altre o indietro fino a toccare gli stessi στοιχεῖα[17].

 

Ma, così come non è con sicura evidenza Empedocle, non è neanche e tanto più Eraclito il filosofo che assolve la memoria nelle forme di vita che trasmutano.

Questi è proprio Pitagora, coerentemente con quanto Ovidio gli fa sostenere, e questo è il valore più specifico di metempsicosi, ovvero di anima individua che entra consapevole in corpi diversi. Di qui solo il collegamento con la memoria delle creature ovidiane del mito che soffrono la mutazione, come è segno nelle lacrime di Niobe che pietrificano, met. 6, 312. E in Ovidio sembra trattarsi di una metamorfosi che come la metempsicosi è da intendersi ‘passaggio’, non fine: tranne in un caso, infatti la trasformazione è definita aeterna, come è stato notato[18] .

E pur tenendo presente che la metamorfosi è comunque ‘morte’ dello stato precedente e ‘rinascita’ in nuova forma, come è chiaramente lo stato di metempsicosi, dobbiamo sottolineare tuttavia una notevole differenza che passa tra il concetto di metamorfosi che avviene anche senza colpa di chi la subisce e l’etica che fa suo il credo nel flusso vitale aggiungendovi i valori della punizione e della redenzione della metempsicosi che è orfica, che è pitagorica.

D’altronde a questo punto non va ignorato comunque che il filo del discorso della trasmutazione che, anche se in modo ben diverso – come abbiamo visto – appare nella filosofia dei greci, è però lo stesso che assorbendo, nel suo primo bandolo, ogni potenzialità concettuale, si snoda nelle Upanishad:

 

il mutamento degli elementi: “la morte è fuoco ed è alimento dell’acqua”, Bŗhadāraņyaka Upanishad, 3, 2, 10[19]; il ciclo esistenziale, e la rinascita: “coloro i quali … riconoscono che tale fede è la realtà, costoro entrano nella fiamma … nel mondo degli dei … dal mondo degli dei nel sole, dal sole alla regione delle folgori…nei mondi del Brahman, in tali mondi del Brahman essi abitano in insondabili lontananze, dalle quali mai più quaggiù ritornano[20]. Coloro i quali invece conquistano i mondi superni mediante il sacrificio, l’elemosina e l’ascesi, costoro entrano nel fumo del rogo, dal fumo nella notte … allorché hanno raggiunto la luna, essi diventano nutrimento, ivi gli dei se ne cibano, seguendo il ritmo crescente e decrescente del re Soma. Allorché per loro è finita questa tappa, essi ritornano nello spazio, dallo spazio nell’aria, dall’aria nella pioggia, dalla pioggia nella terra; riportati alla terra diventano cibo ed allora di nuovo vengono sacrificati a quel fuoco che è l’uomo, dal quale vengono rigenerati in quel fuoco che è la donna. Così, risalendo i diversi domini,essi ritornano alla terra. Coloro i quali non conoscono queste due strade, sono destinati a diventare vermi, insetti, ed ogni specie di animale che morde”, ib. 6, 2, 15-16[21].

 

Dall’animismo ancestrale all’anima individua che ‘soffre’ il samsāra, in fondo è lo stesso percorso che ora naufraga ogni spirito in quello universale ora, su una linea etica, rivendica la singolarità meritevole nel ciclo delle rinascite di premi o punizione o comunque pretende la ‘purificazione’.

Così anche Eraclito coinvolgeva l’anima nella trasmutazione degli elementi: ”per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua diventare terra è morte;ma dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua l’anima“ fr. 112 Tonelli ma senza quel riferimento all’anima individua a alle vite di cui si conserva memoria[22], come è per Pitagora.

 

È in questo percorso, che spiega metacosmesi, animismo, e anime individue e μεταβολή fino al catasterismo, che con i pitagorici è fatto proprio anche da Ovidio in prima persona nel prosieguo del XV libro, per esaltare Cesare e Augusto al fianco di Ercole, Romolo e Enea [23], che anche Empedocle va compreso nel suo ambiguo proporre la sorte dell’anima all’interno degli elementi e che deriva forse pure dalla frammentarietà dei testi oggetto di varia interpretazione come dallo stesso tono oracolare misteriosofico cui viene impostato il discorso. È entro questo complesso sviluppo della dottrina sull’anima che non va comunque ignorata, seppur in questo punto specifico essa appaia più marginale, anche la presenza dell’Agrigentino nella bibliografia ovidiana.

 

Tanto più che non va dimenticato che questa aspirazione a una sopravvivenza dell’anima individua combattuta però insieme dal desiderio dell’annullamento individuale vive la sua alterità ancora dentro lo stoicismo[24], dove se è ammessa una certa temporanea immortalità per gli spiriti magni, l’approdo finale è voler annegare nell’ἐκπύρωσις, come dice Seneca: in antiqua elementa vertemur, Marc. 26, 7, uomini, dei, mondo: eterno desiderio del molteplice di ritorno all’origine, all’Uno, già espresso sotto altri cieli, nei termini di atman che ritorna al Bráhman.

 

Il confronto con Metamorfosi l. I e Fasti l. I

Echi moderni

 

Di solito si è fatto sempre combaciare la dottrina esposta da Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi con altri riferimenti cosmologici presenti nel I libro della stessa opera e nel I libro dei Fasti.

In realtà appaiono alcune differenze che portano a ritenere pertanto che il discorso di Pitagora voglia mantenere una sua identità se non proprio una sua caratterizzazione più aderente al personaggio chiamato a parlare, a differenza di lì dove il poeta parla in prima persona.

 

Nel I libro delle Metamorfosi Ovidio che ha esposto ad apertura il tema del suo poema in nova fert animus mutatas dicere formas/ corpora, vv. 1-2, prende il discorso da capo dall’origine del cosmo:

 

ante mare et terras et, quod tegit omnia caelum

unus erat toto naturae vultus in orbe,

quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles

nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem

non bene iunctarum discordia semina rerum. vv. 5-9.

…….

utque erat et tellus illic et pontus et aër,

sic erat instabilis tellus, innabilis unda,

lucis egens aër: nulli sua forma manebat,

obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno

frigida pugnabant calidis, umentia siccis,

mollia cum duris, sine pondere habentia pondus.

Hanc deus et melior litem natura diremit;

nam caelo terras et terris abscidit undas

et liquidum spisso secrevit ab aëre caelum;

quae postquam evolvit caecoque exemit acervo,

dissociata locis concordi pace ligavit.

Ignea convexi vis et sine pondere caeli

emicuit summaque locum sibi fecit in arce;

proximus est aër illi levitate locoque,

densior his tellus elementaque grandia traxit

et pressa est gravitate sua; circumfluus umor

ultima possedit solidumque coercuit orbem, vv. 15-31.

 

Appaiono d’emblée argomenti riferibili con evidenza a precise dottrine: la teoria dei quattro elementi unita ai significati di discordia ( precisata con discordia semina ma anche detto con lis) e concordia (cfr. concordi pace) non può non rinviare che ad Empedocle e alle sue forze di Odio e Amore che agiscono sui quattro elementi, anche se nel pensiero stesso dell’Agrigentino non va ignorato probabilmente l’influsso dell’azione del πόλεμος di Eraclito: “polemos di tutte le cose è padre, di tutte le cose è re …” fr. 22 Tonelli, “occorre sapere che polemos è comune a tutte le cose …”, fr. 23 Tonelli[25].

Mentre, per non equivocare sulla presenza netta qui di Empedocle, va sottolineato che, a prescindere dalle ipotesi più fumose, in Eraclito non c’è traccia invece dell’azione di alcuna forza positiva ma è solo ammessa la forza dirompente di quella ‘separazione’ dall’Uno che conserva l’eco di una impostazione arcaica e, vorrei dire, religiosa, che in altro contesto riluce ancora nel fondo di tristezza e di colpevolezza sul piano etico, che questa separazione produce come è per la ἔρις pitagorica (VA 59 λυγρή γαρ συνοπαδòς), che oltre che alla discordia intima nell’uomo allude per ciò stesso all’impedimento che essa causa all’unione con l’Uno, la Divinità [26].

Farei caso pertanto all’assenza della concordia nella cosmogonia che Apollonio Rodio fa cantare ad Orfeo, 1, 496-511 (testo indicato come modello per Ovidio per l’attribuzione di un canto cosmogonico a un mitico fondatore di dottrina), brano per cui si conclude genericamente per la fonte empedoclea accompagnata da riprese orfiche attraverso Ferecide[27]. Se l’assenza della concordia in Apollonio dichiara apertamente da una parte che il poeta, nonostante che il termine usato per indicare la discordia sia quello del νεῖκος empedocleo, probabilmente ha presente più che Empedocle e le sue due forze agenti, il concetto del ‘distacco’ primordiale cui alludeva già la ἔρις pitagorica e dall’altra fa chiaro che Ovidio, pur potendo avere come esempio Apollonio Rodio per l’attribuzione di un discorso cosmogonico a un personaggio leggendario e fondatore di dottrina, non segue pedissequamente Apollonio e la sua cosmogonia né per il suo Pitagora né qui nel I libro dell’opera, anche se, come vedremo, un richiamo preciso su altro punto può essere addotto.

Semmai quell’elenco dei ‘contrari’ richiama ora più da vicino Eraclito. Eraclito infatti così si era espresso pur sempre in riferimento alla trasformazione di ogni elemento nel proprio opposto: “si riscaldano le cose fredde, le calde si raffreddano; diventano secche le cose umide, le aride si inumidiscono“ fr. 17 Tonelli. Su tutto, diceva ancora Eraclito, agisce polemos e qui Ovidio pone l’instabilità sotto l’egida della pugna:

 

nulli sua forma manebat

obstabat aliis aliud, quia corpore in uno

frigida p u g n a b a n t calidis, umentia siccis,

mollia cum duris…, cit.

 

Per quanto riguarda poi specificamente l’indicazione dei semina rerum è errato il confronto tout court con Lucrezio e la sua fisica atomica (non c’è altro indizio che in questo contesto si ricolleghi ad essa[28]), anche se il linguaggio è condiviso anche da Lucrezio (cfr. semina ignis, 4, 330; semina aquai, 6, 497). Ma va fatto caso che l’espressione nasce ovviamente come metafora del linguaggio agricolo, e oltre che agli atomi può essere riferita agli elementi stessi nella loro qualità di ‘primi’. È proprio su questa possibilità che si articola ogni diatriba in proposito della VI bucolica virgiliana, peraltro, modello anch’essa per Ovidio di un canto cosmogonico attribuito a un leggendario personaggio, che qui è Sileno, così come appunto nelle Metamorfosi è Pitagora e come parallelamente, abbiamo ricordato, è Orfeo nelle Argonautiche [29]. Nella VI bucolica il contesto è provvisto comunque di ben altri rinvii al pensiero epicureo e tuttavia si fa notare che per mantenere una coerenza di Virgilio al pensiero epicureo, che non ammette uno stadio intermedio della materia, parlare di semina terrarum … animaeque marisque, … et liquidi … ignis, cfr. vv. 32-3, significa, come già per Lucrezio, parlare comunque di ‘visualizzazione‘ degli atomi stessi, – che nell’epicureismo non sono distinti qualitativamente –, nei grandi macroelementi, naturalmente empedoclei, ma poi già accolti dalle diverse dottrine[30]. Peraltro, parallelamente, anche gli σπέρματα di Anassagora, non ricoprono i significati degli σπέρματα di Epicuro, perché se in quest’ultimo indicano gli atomi, nel primo dicono gli omeomeri, che rinviano alla qualità degli elementi, perché se è abbandonata l’unità della massa per una concezione di particelle, esse appunto sono omogenee[31].

 

Piuttosto non è da poco che Chaos è chiamato ora a precedere la distinzione degli elementi.

La precedenza di Chaos è affermata nella Teogonia esiodea[32]:ἤτοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετ’, v. 116.

 

Segue Terra, Amore, il più bello degli dei. Da Chaos nacquero Erebo e Notte, da questa Etere e Giorno perché unitasi amorosamente con Erebo, come è specificato dal verso esplicativo che segue e generalmente espunto (v. 125). Terra partorirà Cielo e con lui avrà, come primi figli, i Giganti. Di qua ha avvio la successione degli dei. È chiaro quindi che Chaos, che primieramente porta con sé il significato di spazio aperto o vuoto – e come lo stesso Esiodo dà a vedere di intendere là dove dice che ‘un prodigioso ardore lo penetrò’, (cfr. v. 700) quando Zeus lanciò la sua folgore – è qui all’inizio del racconto cosmogonico, configurato come gli elementi con volto antropomorfico. Questa presenza primordiale di Chaos sostenuta da Esiodo è presente a Platone conv. 178 b, ad Aristofane (av. 693-4) e il suo significato è discusso da Aristotele nei termini di rapporto tra ‘contenente’, cioè spazio, e ‘contenuto’, cioè ‘elementi’ (phys. 208b 27-33), che il filosofo separa.

Ancora Callimaco fa riferimento al Chaos detto da Esiodo nel proemio degli Aitia (fr. 4, 3 Massimilla). Ma il Chaos di Ovidio si presenta diversamente:

 

unus erat toto naturae vultus in orbe,

quem dixere Chaos, rudis indigestaque mole

nec quidquam nisi pondus iners congestaque eodem,

non bene iunctarum discordia semina rerum, cit.

 

Il Chaos è ora ‘una massa informe e confusa’ che contiene il dinamico moto degli elementi. Ovidio testimonia quindi la nuova ampiezza semantica di Chaos, che certuni ritengono si possa attribuire a influssi orientali presenti nei concetti che filtrano anche nella Genesi biblica: 1,2 “la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di dio aleggiava sulle acque“ ma che, comunque, trova più diretto confronto concettuale con la ‘mescolanza’ originaria detta da Anassagora, fr. 4 D.-K.[33], come anche con lo stato di μῖξις detto da Empedocle, frr. 2 e 5, cit.,dove però si insiste sulla individuabilità dei ῥιζώματα [34]

 

L’eco del Chaos ovidiano con il suo accenno all’emergere poi delle stelle cum, quae pressa diu fuerant caligine caeca,/ sidera coeperunt toto effervescere caelo, vv. 70-71, si rifletterà nella Bellezza dell’Universo del Monti: “stavasi ancora la terrestre mole/ del Caos sepolta nell’abisso informe/ e sepolta con lui la Luna e il Sole”, vv. 16-18, come osservava già Di Benedetto[35] ma aggiungerei che (e Ovidio può ben averne tratto lo spunto) già preciso riferimento al sole e alla luna, tra le ‘forme’ che fuoriescono dall’unica originaria ‘forma’ – qui solo μορφή senza nome – si legge in Apollonio Rodio (1, 499). Massa informe e confusa il Chaos sarà ancora cantato dal classicissimo e peraltro ovidiano Ronsard entro echi orfici:

 

Avant qu’Amour, du Chaos ocieus

Ouvrist le sein, qui couvoit la lumière

Avec la terre, avec l’onde première,

sans art, sans forme, estoient brouillés les cieus, Les Amours 53.

 

Ancora notevole la differenza tra il racconto cosmogonico ovidiano del I libro e il discorso di Pitagora dovuta ora all’introduzione pure di un deus e di una melior natura a dissipare il Chaos:

 

hanc deus et melior litem natura diremit, v. 21.

 

Più sotto il dio è anche configurato come quisque fuit ille deorum v. 32 e quindi con mundi fabricator, v. 57, che richiama in maniera trasparente il demiurgo del Timeo platonico. L’introduzione netta di questo significato conferma che l’espressione che vede appaiati il dio e la natura non è da intendersi come una endiadi[36] che ci riporterebbe entro i significati delle equipollenze stoiche ma piuttosto aveva ragione Alfonsi a confrontare un passo del Protrettico del giovane Aristotele che così distingueva: ἡ φύσις ἡμᾶς ἐγέννησε καὶ ὁ θεός, fr. 11 Walzer[37].

 

La narrazione contempla quindi la ripartizioni delle zone cosmiche e corrispondenti terrestri, e l’apparire delle varie forme di vita entro gli spazi selezionati dal dio:

 

neu regio foret ulla suis animalibus orba, v. 72

 

fino all’apparire dell’uomo. Segue la distinzione delle età del mondo, e quella delle stagioni che interviene nell’età argentea, in cui anche si registra l’apparire dell’agricoltura, fino al diluvio universale inviato per punizione da Giove e quindi, con il mito di Deucalione e Pirra, la nascita della nuova generazione umana.

Pitagora faceva seguire la descrizione della prima origine del mondo da brevi riferimenti al procedere delle età ma questo, come vedremo, è finalizzato ora a dichiarare la trasformazione che regola ogni forma vitale.

 

Confrontando la cosmogonia del I libro delle Metamorfosi con quello che dà inizio ai Fasti apprendiamo che il poeta, che si occupa ora di miti romani, identifica Chaos con il dio Giano.

Si rinvia, sulle tracce di Macrobio (Sat. 1, 9, 16), alle informazioni che Ovidio doveva trarre dalle Antiquitates rerum humanarum divinarumque di Varrone, certamente presente all’Autore anche nell’intero svolgersi dell’opera.

È Giano stesso a presentarsi:

 

me Chaos antiqui – nam sum res prisca- vocabant:

adspice, quam longi temporis acta canam.

lucidus hic aër et quae tria corpora restant,

ignis, aquae,tellus,unus acervus erat.

Ut semel haec rerum secessit lite suarum

inque novas abiit massa soluta domos,

flamma petit altum, propior locus aëra cepit,

sederunt medio terra fretumque solo.

Tunc ego, qui fueram globus et sine imagine moles,

in facies redii dignaque membra deo.

Nunc quoque, confusae quondam nota parva figurae,

ante quod est in me postque, videtur idem.

Accipe, quaesitae quae causa sit altera formae,

hanc simul ut noris officiumque meum.  

Quicquid ubique vides, caelum,mare,nubila,terras,

omnia sunt nostra clausa patentque manu.

Me penes est unum vasti custodia mundi,

et ius vertendi cardinis omne meum est, vv. 103-120

………

…. modo namque Patulcius idem

et modo sacrifico Clusius ore vocor.

 

ianitor,… v. 138

 

È interessante notare come Ovidio abbia qui presente l’antica denominazione di Giano con Patulcius, che leggiamo nei superstiti versi di un inno dei Salii:

 

O Zuel, ad oreso omnia. O Sol adorire (comple oriens omnia).

Verom ad patulcie, ad portam, Patulci

cosmis et ianeos comis et ianitor

Ianes es duenos Ianus es bonus

 

L’inno ricordato anche da Macrobio in un contesto tutto dedicato a Giano e alle diverse possibili etimologie del nome cita, come già Ovidio, gli appellativi di Patulcius e Clusius specificando che con essi il dio era invocato durante i riti sacri, ib. 1, 9, 1-18[38].

 

La rivelazione di Pitagora: trasmutare è divenire. Echi moderni

 

Omnia mutantur, nihil interit, 15, 165, nec perit in toto quicquam…mundo / sed variat faciemque novat… (vv. 254-255): ‘nulla perisce, tutto si trasforma’: un principio di conservazione della materia già osservato[39] ma che proprio in questa formula, pur con approssimazione, è trasmesso dalla celebre teoria di Lavoisier: rien ne se crée, ni dans les opérations de l’art, ni dans celles de la nature, et l’on peut poser en principe que dans tout opération il y a une égale quantité de matière avant et après l’operation, que la qualité et la quantité des principes est la même, et qu’il n’y a que des changements, des modifications[40] e quindi riemerge ad es. nell’Ortis del Foscolo: ”nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù, tutto si trasforma e si riproduce”, Lettera del 13 maggio[41]. Con evidente sottolineatura metafisica già Satiro nel IV atto del dramma a lui intitolato da Goethe in una breve cosmogonia canta i quattro elementi che sotto le forze di Hass und Liebe: mit Hunger ineinander ergossen, v. 18 per concludere che il Tutto immer verändert, immer beständig, v. 29.

 

La trasmutazione segna il divenire (il pensiero pitagorico non necessita di motori esterni come è per Empedocle), il tempo è nel cambiamento. Il flusso del tempo è incessante:

 

nihil est toto, quod perstet, in orbe.

Cuncta fluunt,omnisque vagans formatur imago.

Ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu,

non secus ac flumen, neque enim consistere flumen

nec levis hora potest, sed ut unda inpellitur unda

urgeturque eadem veniens urgetque priorem,

tempora sic fugiunt pariter pariterque sequuntur

et nova sunt semper; nam quod fuit ante, relictum est,

fitque, quod haud fuerat, momentaque cuncta novantur, vv. 177-189.

 

Tutto si succede trasformandosi: il giorno alla notte, le fasi lunari, le stagioni e come queste le età dell’uomo (cfr. vv. 189-233) e il poeta apostrofa il tempo:

 

tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas,

omnia destruitis vitiataque dentibus aevi

paulatim lenta consumitis omnia morte, 234-237.

 

Così gli stessi elementi, (vv. 238-251 cit.), così le età del mondo, così le trasformazioni di terra in mare e viceversa, e fiumi e acque o erbe che acquistano proprietà estranee al precedente status, cadaveri da cui nascono forme vitali: la bugonia o il serpente dal midollo spinale umano, dai granchi gli scorpioni, i bruchi in farfalle, da uova gli uccelli fino alla mitica fenice che sorge dal cadavere paterno, maschi in femmine e viceversa, orina di lince in pietra come il molle corallo che impietrisce, e poi civiltà e città che sorgono e finiscono altre si alternano (e l’excursus vuole l’elogio e l’augurio per Roma), e noi, gli umani che oltre il corpo siamo animae volucres, e trascorriamo nei corpi altri di animali. Di qui, riprendendo il discorso da capo, da come aveva preso avvio, suona di nuovo a chiusura l’abstine della predicazione del vegetarianismo: ora vacent epulis, alimentaque mitia carpant, v. 478

 

Quest’ultimo elenco di forme è fatto precedere ancora una volta dall’assunto della metamorfosi che è sempre morire per nascere ancora, forme cui non è dato durare:

 

nec species sua cuique manet, rerumque novatrix.

Ex aliis alias reparat natura figuras,

nec perit in toto quicquam,…, mundo,

sed variat faciemque novat, nascique vocatur

incipere esse aliud, quem quod fuit ante, morique

desinere illud idem, cum sint huc forsitan illa,

haec traslata illuc, summa tamen omnia constant.

Nihil equidem durare diu sub imagine eadem

Crediderim…., vv. 252-260

 

Il roteare delle forme che il tempo edace consuma, il loro essere fiume e nel fiume, scorrere continuo di onda che l’altra rincorre:ancora una volta un’eco eraclitea nell’ immagine sua propria del fiume-divenire[42]. Trasmutare è divenire, una sola la legge che sostiene tempo e metamorfosi: questo il messaggio dottrinario che Ovidio attribuisce a Pitagora, distinguendolo così in maniera lucida dalle proposte cosmogoniche che aveva inserito ad introduzione delle Metamorfosi, ma anche dei Fasti, e dove ricorrevano suggestioni diverse.

 

A raccogliere questa immagine e il pensiero del Pitagora ovidiano, fondendolo con l’altrettanto motivo classico della poesia che ciononostante eterna chi è cantato, mi sembra, più di ogni altro[43], Shakespeare nei Sonetti:

 

Like as the waves make towards the pebbled shore

So do our minutes hasten to their end;

Each changing place with that which goes before

In sequent toil all forwards do contend.

….

Time doth transfix the flourish set on youth

Feeds on the rarities of nature’s truth,

And yet to times in hope my verse shall stand,

Praising thy worth, despite his cruel hand, 60.

 

È stato notato che mentre Ovidio ha presente le onde del fiume (facendo così suo, osserviamo, più chiaramente il pensiero eracliteo), Shakespeare pensa ad una spiaggia marina su cui battono le onde[44], immagine di mare-tempo che è anche nel sonetto 64[45].

Nel sonetto 64 il passaggio delle forme e l’azione del tempo che i versi di Ovidio presentavano correlati vengono ancora riproposti insieme e segue ancora la clausola dell’amore eternato dai versi, sphraghis di molti sonetti:

 

When I have seen by Time’s fell hand defaced

The rich, proud cost of outworn buried age;

When sometime lofty towers I see down.razed,

And brass eternal slave to mortal rage;

 

When I have seen the hungry ocean gain

Advantage on the kingdom of the shore,

And the firm soil win of the watery main,

Increasing store with loss with store;

When I have seen such interchange of state,

Or state itself confounded to decay,

Ruin hath taught me thus to ruminate,

That Time will come and take my love away.

 

Ma anche questa immagine del mare che guadagna e sommerge terre e città e terre che emergono là dove era mare (the kingdom of the shore…/ …the watery main) è proposta già tra gli esempi di mutazione che Pitagora elenca, met. ib., 287-294, e il poeta moderno sente così il bisogno di rinviare apertamente alla sua fonte d’ispirazione, che cantava appunto la trasmutazione, evidenziando: when I have seen such interchange of state…

Così come l’immagine del tempo edace del sonetto 60: doth transfix è certamente ripresa di tempus edax rerum, più letteralmente presente nel sonetto 19: devouring Time (tempo ‘famelico’ traduce Ungaretti[46]), dove appare pure la fenice, il cui mito, anch’esso, è narrato appresso nei versi pitagorici, ib. 392-407[47].

Se il debito di Shakespeare nei confronti di Ovidio è evidente, nella sua poetica pur filtrata da tanti classici antichi e moderni ormai fusi in una sola voce, Shelley, forse, che in Posthumous Poems, Lines II scrive: The stream we gazed on then rolled by;/ its wawes are unreturning sembra in maniera più trasparente conoscere l’hora ovidiana 15, 181, che non i minutes hasten to their end di Shakespeare, quando parla di hungry hours (Prometheus unbound, Atto IV v. 69).

Ma forse Shelley evoca qui da Shakespeare pure l’immagine di hungry Ocean (Sonnets 64 cit.), che adombrava nel mutamento il divenire divorante e incessante, (come già quindi il mare negli esempi pitagorici delle Metamorfosi), perché è a lui che s’ispira quando, assorbendo il tutto con rapidità ermetica, usa il sintagma straordinario: Ocian of Time: Unfathomable Sea, whouse wawes are years,/ Ocian of Time, (Posthumous Poems, Time)[48].

 

Emanuela Andreoni Fontecedro

[1] Collega Ovidio al neopitagorismo dei suoi tempi U.Schmitzer,Reserare oracula mentis abermals

zur Funktion der Pythagoras Rede in Ovid’s Methamorphosen, SIFC 99 ( 2006),p.34.

[2] Sulla nota variazione ciceroniana delle sette note prodotte dalle sfere rispetto alle otto dette da Platone, sulla stessa vis prodotta da Venere e Mercurio puntualizzava Macrobio (2, 4, 9). Approfondisce la questione M.R. Wright, Cosmology in antiquity, London and New York 1995, pp. 135-138, né si vede pertanto la necessità di ipotesi labili come fa Bréguet (ed. del de re publica ciceroniano, Paris 1980 ad l.).

[3] Su questa definizione cfr. oltre l’antico commento di Ierocle nella ricca ed. curata da M. Meunier (Hièrocles, Commentaire sur les Vers d’or Pythagoriciens, Paris 1931), ad l., il sempre valido e esaustivo lavoro di P.C. Van der Horst, Les vers d’or Pythagoriciens, Leyde 1932, ad l.

[4] Tranne isolate posizioni della critica moderna, che ritiene superflue testimonianze come quella data da Platone, tutta la tradizione non ha dubbi sul far risalire il pensiero allo stesso leggendario fondatore. Aristotele, parla preferibilmente di Pitagorici ma questo non vuol dire che i testi dei pitagorici del V sec. letti da Aristotele non si richiamassero sul punto al Maestro fondatore, come già sosteneva Cic. Tusc. 5, 9.

[5] Senza senso l’osservazione di J.F.Miller,The Memories of Ovid’s Pythagoras,Mnemosyne ser.IV,47 (1994), p.477, in quanto è la dottrina della metempsicosi che è fatta dipendere dal vegetarianismo.Schmitzer sottolinea piuttosto che ‘der emozionale Appell setz den Grundton fürdas Folgende’,op.cit.,p.36.

[6] A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924, p. 79.

[7] Cfr. Ph. Hardie, The Speech of Pythagoras in Ovid Methamorphoses 15: Empedoclean Epos, “Class. Quart.” n.s. 45,1 (1995), pp. 204-214, ove non si capisce fra l’altro il rinvio all’esametro usato da Empedocle per la poesia didattica per spiegare l’uso dell’esametro da parte di Ennio negli Annales, ignorando l’epos omerico ben presente invece al poeta di Rudiae e la singolarità attribuita ad Empedocle come esponente della filosofia versificata prima di Lucrezio, ignorando comunque Parmenide.

[8] Cfr. quanto, sul pensiero espresso da Pitagora, sarà svolto nell’ultima sezione del presente lavoro.

[9] Riassume la quaestio, con puntuale riferimenti bibliografici S. Viarre, L’image et la pensée dans les ‘Metamorphoses’ d’Ovide, Paris 1964, p. 219.

[10] Cfr. l’introd. all’ed. di Empedocle a cura di Gallavotti (19852), p. XIV.

[11] Per una panoramica più ampia sul rapporto metempsicosi/memoria rinviamo, come esempio della scissione della memoria dalla reincarnazione – e non si tratta di metensomatosi –, a quanto nella Bhagavadgita Kŗsna insegna ad Arjuna: qui la memoria appare come una conquista cui si può pervenire attraverso le vite: “numerose sono le mie nascite passate e anche le tue Arjuna; io le conosco tutte; tu, invece, non le conosci“ 4,5, (Bhagavadgita, a cura di A.M. Esnoul, tr. B. Candian, Milano 1976).

[12] Per una completa rassegna delle testimonianze che coinvolgono anche l’affermazione di Ennio circa la propria anima che è stata già di Omero e Pitagora e di un pavone cfr. l’ed. degli Annales di Ennio curata da O. Skutsch, Oxford 1985, pp. 150-153.

[13] H.S. Long, A Study of the doctrine of metempsychosis in Greece from Pythagoras to Plato, Princeton New Jersey 1948, p. 17.

[14] La dottrina pitagorica e eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane, in “Atti e Memorie della Reale Accademia Virgiliana di Mantova”, n.s. II (1909), pp. 113-120 e quindi in Scritti varii di Letteratura latina, Torino 1920, pp. 207-214.

[15] Per la discussione in proposito cfr. l’ed. di Eraclito curata da M. Marchovich, comm. al fr. 53 = 4 Tonelli, (e per l’elemento ‘aereo’ da intendersi incluso in πρηστήρ cfr. l’ed. di Eraclito di Diano al fr. 39) e al fr. 66 = 112 Tonelli. Per la testimonianza in casa stoica dei quattro elementi in Eraclito, cfr. Plut. de E apud Delphos, 392c, e Max. Tyr. diss. 41, 4 k (p. 334, 140-7 Trapp) ma già un riferimento in Arist. phys. 205a, ove non sono messi in discussione per Eraclito i quattro elementi poco prima elencati.

[16] Concordiamo con l’interpretazione fisica di Diano fr. 31 (fra l’altro, come vediamo, Ovidio ci dà avvertimento in tal senso!), piuttosto che con quella metafisica di Tonelli, cit. ad l.

[17] Approfondisce il coinvolgimento degli elementi stessi nella metacosmesi: Viarre, op. cit., pp. 309-348. Che gli elementi sono coinvolti non solo come medium della metamorfosi ma anche come sua espressione testimoniano i miti di Egeria che gelidum de corpore fontem / fecit (sc. soror Phoebi) et aeternas artus tenuavit in undas (met. 15, 549-550), o di Proteo interdum, facies liquidum imitatus aquarum, / flumen eras, interdum undis contrarius ignis (ib. 8, 736-737), o quello di Eco … in aera sucus / corporis omnis abit…, (ib. 3, 397-398), o quello di Tagete di cui si narra che sumere mox hominis terraeque amittere formam (ib. 15, 556).

[18] Si tratta della trasformazione di Giacinto (met. 10, 164-166) ma ha sorpreso questa aeternitas attribuita ormai a un fiore che come tale sempre muore, cfr. Viarre, op. cit., p. 220. Ma naturalmente si ritiene che il poeta intendesse sottolineare la permanenza ‘eterna’ nella forma del fiore.

[19] Cfr. commento in M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente, Bologna 1993 (Oxford 1971), p. 234.

[20] Non posso non pensare che è in questa possibilità di anime ‘svincolate’ da subito dalla ruota delle rinascite che forse potrebbe essere proiettata la discussa quaestio circa la sorte dell’anima di Anchise di cui nulla è detto nel VI dell’Eneide mentre sono presentate le anime che nasceranno (cfr. Th.N.Habinek,Science and Tradition in Aeneid VI”Harv.St.Class.Phil.” 92 (1989),pp.223. 255). Certamente significativo il confronto con gli ὅσιοι identificati da Platone (Rep. 615 b).Sul tema delle rinascite approfondiva già E.Rohde, Psiche, trad it.1970 ( Freiburg in Bresgau 1890-1894), pp.458-467.

[21] Il testo è citato secondo la trad. che si legge in Upanishad antiche e medie, cura di P. Filippani-Ronconi, Torino 1995 (1960). Per un commento sul pensiero in materia di metempsicosi che coinvolge la via degli ‘svincolati’, o degli dei, quella dei ‘padri’, quella delle ‘regioni dell’oscurità, relativo anche alla Upanishad cit., cfr. Radhakrishnan, La filosofia indiana dal Veda al Buddismo, tr. E. Agazzi, Torino 1974 (London 1923), pp. 235-244.

[22] Il celebre assunto del filosofo ἦθος ἄνθρώπῳ δαίμων (55 Tonelli) è piuttosto interpretato come indice di una posizione illuminista che non mistica, che pure eccezionalmente non è mancata, cfr. più particolareggiato il commento di Marchovich, cit., al fr. 94.

[23] Sul finale augusteo cfr.Schmitzer,op.cit.,pp.11-13 e piuttosto sui limiti in cui esso va compreso P.Fedeli, Il poema delle forme nuove, in “L’Ovidio Napoletano”, Sulmona vol.II (1997),p.14.

[24] Per una completa indagine che tiene altresì conto dei singoli rappresentanti della scuola, cfr. R. Hoven, Stoïcisme et Stoïciens face au problème de l’audelà, Paris 1971.

[25] È errato ritenere che Ovidio qui non avesse presente la teoria dei quattro elementi, fra l’altro accettata ,dopo Empedocle, dalle scuole filosofiche indistintamente (cfr. supra n. 10) ma si limitasse a tre: già così Lukas, op. cit., p. 207. Non è rilevante infatti che l’elemento fuoco sia citato più avanti (così rileva Barchiesi, op. cit., ad l. che sottolinea piuttosto i tre elementi primordiali), in quanto il fuoco è da intendersi come elemento cosmogonico nella sua forma purissima di αίθήρ o ignea vis, v. 26 e il farlo guizzare da ultimo da parte del poeta lo porta così a evidenziarne la collocazione.

[26] Cfr. il commento di Ierocle ai Versi Aurei, cit., ad l.; e Van der Horst, Les Vers d’or Pythagoriciens, cit., ad l.

[27] La rara tradizione di Ofione e Eurinome come predecessori di Crono e Rea risalirebbe a Ferecide, cfr. il ricco commento alle Argonautiche di G. Paduano e M. Fusillo, Milano 1999, ad l.

[28] Così anche A. Barchiesi nel commento al testo ovidiano (Milano 2005) ad l.

[29] Dal punto di vista dottrinario i modelli letterari non sono influenti, come vorrebbe A.Schmekel,De ovidiana Pythagoreae doctrinae adumbratione, Greiswald 1885,p. 70.

[30] Cfr. per la dibattuta interpretazione della VI bucolica E. Andreoni Fontecedro, Enciclopedia virgiliana, Roma 1984, vol. I, pp. 907-911 s.v. cosmologia.

[31] Sulla dottrina anassagorea della omeomeria cfr. Arist. phys. 4,203a (= Anassagora A 45 D.-K.) e Lucr. 1, 859-920.

[32] Per altri brevi cenni a Chaos (fra cui Orph. Fr. 60 Kern) che non possono in quanto tali essere stabiliti come fonte per Ovidio cfr. F. Lukas, Die Grundbegriffe in den kosmogonien der alten Völker, Leipzig 1893 alle pp. 162-3, 179-182, 198.

[33] Cfr. A. Lalande, Dizionario critico di filosofia, Milano 1975 (Paris 1926), s.v. Caos. Assolutamente interessante lo scolio al verso 116 della Teogonia esiodea (vd. supra), che testimonia questa evoluzione semantica: il passo è riportato e commentato da F.M. Cornford, From Religion to Philosophy, New York 1957, p. 66 e n. 3. Per la diversa interpretazione di Chaos da parte di Zenone stoico cfr. SVF I 103-104.

[34] Si confronti qui anche la cosmogonia accennata da Diodoro ( 1,7, 1-7) ,su cui discute risolutivamente W.Spörri, Späthellenistische Berichte über Welt, Kultur und Götter,Basel 1959,pp.114-117.

[35] Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino 1990, p. 325.

[36] La possibilità è ammessa nel commento ancora di Barchiesi, op. cit. ad l.

[37] L. Alfonsi, L’inquadramento filosofico delle Metamorfosi, in Ovidiana a cura di N.I. Herescu, Paris 1958, p. 266.

[38] Dedica un’appendice a Giano, interpretato in un contesto di mitologia etrusca Lukas, op. cit., pp. 201-203, dove lo studioso vedeva assolta l’identificazione di Giano con il Sole e perciò Apollo, identificazione che Macrobio, cit., indicherebbe secondo la etimologia ‘Dianus’. Nota la testimonianza portata da Agostino che nel De civitate dei (7, 9) sa Giano configurarsi con il mondo.

[39] Cfr. Euripide, Chrysippus fr. 839 Nauck2 (riconducibile ad Anassagora A 112 D.-K.); Aristotele phys. 225a 1, Epicuro, Herod. 39, Lucr. 1, 248-9.

[40] Cfr. Traité élémentaire de chimie, Paris 1793, t. I pp. 140-141.

[41] E. Andreoni Fontecedro, Variazioni d’autore: Lucrezio in Foscolo e Leopardi, “Aufidus” 48 (2002), p. 15 ora anche in Animula, Roma 2008, p. 100.

[42] Cfr. i celebri frammenti del fiume, frr. 28.30-31 Tonelli. Un’ampia discussione sullo stemma della tradizione nell’ed. Marcovich, fr. 40.

[43] Cfr. parzialmente Roman de la Rose: li tens, vers qui neant ne dure,/ ne fers ne chose tant soit dure,/ car tens gaste tot et menjue;/li tens, qui tot chose mue 375-378 in quanto qui è fatto soggetto il tempo come causa del mutamento, invece che la natura stessa delle cose. A questa tradizione amplissima di riferimenti appartengono ancora i noti versi foscoliani: “… e l’uomo e le sue tombe/ e l’estreme sembianze e le reliquie/ della terra e del ciel traveste il tempo”, Sepolcri, vv. 20-22.

[44] Da notare che Ovidio in questo contesto cosmogonico, estensibile quindi al primo libro, preferisce comunque il termine unda, anche dove deve riferirsi all’elemento originario detto più isolatamente con aqua o umor. L’uso di unda, undae, cfr. 1, 16 e 22, 15, 81 e 241 e 251, oltreché 15, 181 considerato, mi sembra essere preferito perché assorbe in sé l’idea del divenire. Il fascino complesso del termine ne provoca la ripresa anche da parte di Ronsard ,cit.

[45] Cfr. questo accenno in G. Highet, The Classical Tradition, New York-Oxford 19762, p. 621 nn. 42 e 43.

[46] Cfr. 40 Sonetti di Shakespeare, Milano 1946.

[47] Ovidio definisce ancora il tempo come edax in Epist. ex Ponto, 4, 10, 7. Shakespeare fa ancora riferimento ai denti del tempo in Measure for Measure, Atto V sc. 1. Agli aguzzi denti del tempo si riferiva già Simonide, fr. 13 West.

[48] Per altre testimonianze letterarie della sensazione del fiume-tempo che i poeti condividono cfr. quanto ricordavo in Un esempio di eredità classica: parole, pensieri sul tempo, “Aufidus” 49 (2003), p. 14 ora anche in Animula, cit., p. 209.

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