L’ambiguo segno dei ‘campi arati’ e il mito dell’età dell’oro

1 Alle origini della storia: Lucrezio

1.1  Le fasi

Nel V libro del de rerum natura Lucrezio ricostruisce le fasi della storia dell’umanità. Nella sua ricostruzione , coerentemente con la dottrina materialista professata, non è previsto alcun intervento della divinità.

Le fasi che si succedono possono essere analizzate come segue. La fase  dell’origine ( o stato primordiale, detto anche stato di natura), che ha inizio  allorché la natura ha già fissato le specie( foedere naturae certo,v.924).L’uomo allora era più  forte fisicamente rispetto a come è attualmente, il suo corpo era anche più resistente al caldo, al freddo,al cibo vario ingerito, ai malanni. Gli uomini vivevano a mo’ degli animali, errando. Mangiavano quello che la terra offriva ‘spontaneamente’, ghiande e corbezzoli,  dato che l’aratro era ancora sconosciuto.

Si abbeveravano a fiumi e sorgenti. Non conoscevano il fuoco, né avevano vesti. Si riparavano in mezzo ai cespugli per fuggire  i venti e le piogge sferzanti. Ognuno era solo e sua era la preda che la fortuna gli offriva  e, soprattutto viene sottolineato che : nec commune bonum poterant spectare neque ullis / moribus inter se scibant nec legibus uti , vv.958-9.  La foia reciproca, o la violenza del maschio, o un dono di ghiande, corbezzoli, pere alla donna, congiungeva i corpi .Sorpresi dalla notte dormivano nudi in terra avvolgendosi di foglie e di fronde ,ma non temevano ,per esperienza, che il sole non riportasse la sua face. Nel sonno, o durante la caccia anche se forti di mani e di piedi, o comunque per conseguenza di questa conoscevano il dolore atroce causato dall’attacco delle fiere e morivano:dulcia linquebant lamentis lumina vitae,v.989.  Lucrezio non tralascia di indicare già da qui, confrontando con i tempi attuali, che anche l’ars della navigazione era sconosciuta, e che si moriva allora per penuria cibi(v. 1007)[1], come per ingerimento inconsapevole di veleno. In questa prima fase (vv.925-1010) quindi  l’uomo primitivo è caratterizzato  dalla facilità di ottenere un cibo che è detto essere dato lautamente dalla natura (v.944) ma che può risolversi  anche con una sua mancanza  che causa la morte,dalla facilità di rispondere all’esigenza della sete, di ripararsi dalle intemperie e comunque da un certo soddisfacimento dei bisogni naturali ma anche  concomitantemente da morte e sofferenze atroci, non dissimili comunque da quelle dei tempi presenti, dove pure morti e sofferenze causate da guerre e viaggi per mare, colpiscono per di più ,in un solo momento, un vasto raggio. La prima fase si caratterizza anche  per assenza di regole e leggi, vivendo i singoli isolati , e nessuna ars ( citate l’agricoltura e la navigazione) è conosciuta. Fuoco ,  vesti, case ( in latino casa identifica propriamente la ‘capanna’ ma , avvisato di ciò,preferiamo esprimerci qui con un vocabolo semanticamente più intenso e che condensa così più propriamente la plurisignificanza ad esso sotteso ) non identificano la prima fase. Case, pelli, fuoco, la famiglia sono gli elementi caratterizzanti in primis  la seconda fase (v.1011 sgg).. Di qui il rapporto tra ‘ vicini’ (finitimi) che nasce come ‘amicizia’ (amicities) con lo scopo (aventes ) precipuo di  nec laedere nec violari ( vv.1019-1020), manifestando  con i primi suoni del linguaggio   e a gesti che imbecillorun esse aequum misererier omnis,v.1023.Si produce la concordia per merito della  bona magnaque  pars che servabat foedera caste,v.1025.

La  costrizione (subegit) della natura e  l utilitas  fa progredire il linguaggio : expressit nomina rerum. Il fulmine, l’attrito dettero il fuoco, l’esempio del calore del sole insegnò a cibum coquere e seguendo  in progress il percorso di questa fase …hi victum vitamque priorem/commutare novis monstrabant rebus et igni /ingenio qui praestabant et corde vigebant,vv.1105-1108.I reges fondano le città, dividono bestiame e campi a seconda del merito :  bellezza, forza, ingegno pro facie cuiusque et viribus ingenioque,v.1111. In  questa fase ( vv.1011-1112) vengono messi in rilievo solo dati positivi: il cammino non è intralciato da una minoranza probabile che non osserva i patti: aut genus humanum iam tum foret omne peremptum/ nec potuisset adhuc perducere saecla propago,vv. 1025-6. . Non è distinto qui  nettamente un potere monarchico da quello aristocratico [2], dato che l’azione dei reges e di quanti ingenio qui praestabant et corde vigebant  non appare contrapposta .

La terza fase ha inizio con l’uccisione dei reges,(regibus occisis,v. 1136). Fu il desiderio di oro e ricchezze a  sottrarre l’honos  ai forti e ai belli, et validis et pulchris dempsit honorem,v. 1115, rovesciando così il valore ad essi  riconosciuto. Ora imperium sibi cum ac summatum quisque petebat,1142.Ora genus humanum,…/ ex inimicitiis languebat,vv. 1145-6. L’  amicitia che aveva dato luogo alla seconda fase è stata annientata (inimicitia), gli uomini vivono tempi di violenza ( vi colere aevum,ib.).La terza fase è caratterizzata solo negativamente,vv. 1113-1142 e ancora la ripresa ai vv. 1145-6.Succede una quarta fase( vv.1143 sgg.). In questa fase alcuni  uomini  ( ed è qui semmai che va individuata una supremazia aristocratica)…magistratum…docuere creare/ iuraque constituere, ut vellent legibus uti,vv. 1143-4. E’ così che il  genus humanum…/…/ sponte sua cecidit sub leges artaque iura,vv.1145-7. Gli uomini rifiutarono di vivere nella violenza per accedere a giuste leggi . Si rimisero quindi  volontariamente, una volta posto, al dictat della legge, al significato del diritto. Il timore della pena  perseguì  da allora i colpevoli [3]. Qui nasce anche il culto e il timore degli dei [4], cui a torto si attribuisce un rapporto con il mondo degli uomini.

1.2 Le artes e lo spazio dell’agricoltura. L’età felice

Dopo un considerevole numero di versi dedicati a stabilire l’origine della religione, Lucrezio torna a completare  ( quod superest, 1241) il discorso sulla storia dell’uomo, che ora si concentra   sulla scoperta dei metalli. La scoperta e quindi il loro uso fu conseguenza dell’incendio delle foreste  a causa sia del fulmine sia del fuoco scagliato contro i nemici  dagli uomini , che guerreggiavano in mezzo ai boschi. Questa affermazione riporta quindi la scoperta dei metalli a partire comunque dalla seconda fase della storia ,così come ricostruita dal poeta. Con i metalli diviene possibile forgiare gli arnesi: …silvasque ut caedere possint/ materiemque dolare et levia radere tigna/ et terebrare etiam ac pertundere perque forare, vv.1266-1268. L’oro  e l’argento si dimostrarono non adatti e fu usato il bronzo. Ma migliore fu  il ferro. Con il bronzo,aere solum terrae tractabant, aereque belli/ miscebant fluctus et vulnera vasta serebant/ et pecus atque agros adimebant…/…/inde minutatim processit ferreus ensis/ versaque in opprobrium species est falcis ahenae,/ et ferro coepere solum prescindere terrae, / vv.1289-1295. Viene ancora confermato qui che l’agricoltura,resa possibile dagli arnesi di bronzo e poi di ferro , avviene  nella seconda fase ,e quindi combacia con la ‘divisione’ dei campi e la loro attribuzione fatta dai reges. Dopo  una parentesi sulla guerra ,vv.1297-1349 ( in cui anche i metalli entrarono in gioco vv.1289-1290; 1295-1296) ,Lucrezio precisa che le vesti furono una scoperta che seguì l’uso del ferro, che la filatura della lana passò dagli uomini alle donne allorchè agricolae…vitio vertere severi/, ut muliebribus id manibus concedere vellent/ atque ipsi pariter durum sufferre laborem/ atque opere in duro durarent membra manusque,vv.1357-1359. Anche le vesti erano state attribuite alla seconda fase. All’ars  della coltivazione dei campi (durus labor) Lucrezio dedica uno spazio in cui ricorda che lo specimen fu offerto dalla natura creatrix ed elenca la semina, l’innesto, le viti , gli olivi e gli alberi  da frutta. Da queste artes Lucrezio passa all’arte liberale della musica: et zephyri, cava per calamorum, sibila primum/ agrestis docuere cavas inflare cicutas,vv.1382-2[5].  Nel ricostruire  la scoperta dei primi strumenti musicali Lucrezio, riprendendo nei contenuti e con leggere mutazioni di forma ( vv.1392-1396)  un accenno già proposto nel secondo libro del suo poema (vv.29-33), dà la descrizione idillica di quei  primitivi pastori intenti a suonare : il quadro è arcadico,è il locus amoenus : l’albero, la molle erba , il ruscello. In genere si sottolinea che i poeti augustei riprendono da Lucrezio questa descrizione , come pure che si tratta di sola squisita argomentazione epicurea. Pur invitando la ripresa del II libro – dove è così indicato il τέλος del sapiens epicureo-  ad intendere le giuste allusioni al Giardino di Epicuro, bisogna anche cogliere in Lucrezio l’influsso letterario del paesaggio ( l’albero, l’acqua scorrente)   ricostruito da Platone per l’ambientazione dei dialoghi di Socrate . Come pure  che ora sono  aggiunti i pastori colti in quella particolare atmosfera  d’ Arcadia in cui li aveva immessi  Teocrito[6] ,mentre  se ne esaltano, con il linguaggio ideologico,  gli otia dia,1387 e il ‘piacere’ tratto dalla condotta di vita ( iuvabant,1390 iucunde habebant,1394; dulces cachinni,1397;  lascivia laeta,1400;  risus dulcesque cachinni, 1403[7] ).

E’ così che  a questo punto,la narrazione delle origini ingloba una visione scritta dall’orgoglio dei poeti  che facendosi   pastori poeti – ché poesia e musica sono un tutt’uno [8]– si fanno fondatori di civiltà. Non solo .Furono proprio i poeti, così come vuole la tradizione più radicatamente intellettuale, con i loro carmi non semplicemente a ‘memorizzare’ la storia, ma in fondo, così a crearla, vv.1444-5, non diversamente da come nel clima bucolico ricostruirà non molto diversamente Virgilio nella VI ecloga[9]. Si vede qui come sia  erroneo  – nell’ideologia lucreziana- anticipare i pastori ‘inventori’ dell’ars della musica  agli agricoltori. Tanto più – a prescindere dalla significanza culturale entro cui va compresa -che è sottolineato il clima di socievolezza in cui essa avviene e si esplica: situazione non attribuibile, come si è fatto, all’età precedente [10] , età della solitudine.  Su questa ultima sezione di versi la critica ha sottolineato, pur con diverso peso del giudizio, il contemporaneo elogio  delle artes da parte di Lucrezio( vv.1448- 1457) e quindi concepisce  un Lucrezio progressista, sia ha messo in risalto un suo ‘primitivismo’ , lì dove il poeta  ribadisce la situazione moralmente deteriorata dei tempi presenti, quando l’uomo non si limita più a soddisfare i bisogni naturali.

Non entro qui nella vexata quaestio, perché in questi termini esula dalla presente ricerca, e perché  comunque ritengo la duplice osservazione  su Lucrezio non contraddittoria, in quanto non dipende dalle artes in sé il declino morale ma dall’uso che l’uomo ne ha fatto. Un discorso questo che prosegue fino ai nostri giorni in merito alle ‘tecnologie’. Certo è , in ogni caso, che per Lucrezio le artes, finché rispondono a soddisfare le esigenze naturali e necessarie segnano il percorso positivo della civiltà. E’ il momento della loro scoperta ( agricoltura, tessitura, musica) che si allinea  all’ uso in progress del linguaggio e  che soprattutto si    fonde con il valore sociale della ‘concordia’,(v.1024 ), ancorata al patto di  ’ amicizia’(amicities,1019).Se il fine (aventes) del nec laedere nec violari( v. 1020), stabilito con il patto, riporta alla nota sentenza di  Epicuro, (εις μη βλάπτεν αλλήλους μηδε βλάπτεσθαι,  κ.δ. 31),che va rapportata  al pensiero già espresso dal sofista Licofrone sulla relatività del giusto, o in altre parole sul diritto posto per convenzione  come ricordato da Aristotele (Pol. 1280 b :αλλα μόνον όπως μηδεν αδικήσουσιν αλλήλους),  non va dimenticato che Epicuro  ,ritrovate le origini della φιλία nell’’utile’Gn.Vat.23   , la definiva un ‘bene’, Gn.Vat.78, per cui bisogna correre i pericoli ( Gn.Vat.28) e soprattutto dice che essa

’ trascorre per la terra annunciando a tutti noi di εγείρεσθαι επι τον μακαρισμόν di destarci alla comprensione, alla stima, all’elogio della felicità ‘,Gn.Vat.52.

Questi valori della concordia e della amicities ( si faccia caso alla scelta del vocabolo raro per trarlo fuori dal corroso uso del linguaggio quotidiano che avrebbe richiesto amicitia,ai fini di valorizzare la portata del significato) che spettano alla seconda fase – quella che succede allo stato naturale-, la identificano così , non c’è dubbio’, come  ‘età felice’.

Questa comunque non ha a che vedere con  l’ età dell’oro , lo stato naturale delle origini , il cui mito ha altri presupposti e certo nulla ha in comune con la comprensione utilitaristica sia del ‘patto di non aggressione’ sia della stessa ‘amicizia’, come pure della  funzione positiva delle artes.

2 Alle origini della storia: il mito dell’età dell’oro

 

2.1 Esiodo

 

Il mito dell’età dell’oro si fa risalire ad Esiodo. Ma è da osservare – come è noto- che Esiodo non parla di un’’età’ così definita ma di χρύσεον γένος, cioè di una stirpe, una razza d’oro, cui seguirono create in successione dagli dei ,e individuate dall’uso dei metalli , una razza d’argento, una di bronzo,quindi quella degli eroi, e l’attuale di ferro , così nelle Opere e giorni (vv.109-173).

A prescindere dall’età degli eroi, che rimarrà tratto specifico di Esiodo, legato alla tradizione delle memorie e delle saghe greche, il mito sarà fatto proprio dalla cultura latina e quindi costituirà patrimonio della intera cultura occidentale.

Bene ha messo in evidenza , molti anni or sono, Baldry,[11] sostenendo che il passaggio alla definizione di ‘età’ dell’oro si può presupporre a carico della ‘ambiguity’ della traduzione latina di γένη con saecula ,  e aetas  . Termini che alla  significanza di ‘generazione’ si ampliano a comprendere il tempo ,l’età delle generazioni stesse. Ma sulla ripresa latina verremo di seguito.  Quanto è importante notare è che è Esiodo a fissare i caratteri dell’età dell’oro, così come a porla sotto l’egida di Crono. Gli uomini della stirpe d’oro “vivevano come gli dei; non avevano affanni,/ senza dolori e miserie; non erano afflitti nemmeno/dalla vecchiaia…/fuori da tutti i malanni, contenti vivevano in festa./Quando arrivava la morte, era come cadere nel sonno./ Tutto era bello per loro. La terra era tanto feconda/ che produceva da sé, generosa e cortese”,vv. 112-119 [12] .

La spontaneità della produzione della terra,la mancanza di qualsiasi concetto di ‘lavoro’, di fatica, di sofferenza di alcun genere, definisce l’aspirazione massima del mito. Questi uomini della prima razza creata dagli dei, dopo la morte divennero i buoni δαίμονες terrestri,  φύλακες guardiani del genere umano.

Nel mito narrato dallo Straniero nel Politico Platone che arricchisce l’età delle origini con le figure dei ‘pastori divini’, 271 d,  conferma  con Esiodo ‘la vita degli uomini del tempo di Crono’caratterizzata  dalla produzione spontanea della terra,ib.272 b.

2.2   Virgilio e i poeti dell’età augustea. La tradizione

Quando Virgilio fa riferimento nelle Bucoliche all’età dell’oro , dentro una concezione ciclica del tempo, e nella prospettiva messianica della IV ecloga dice :…redeunt Saturnia regna,v.6, e ancora  :…ac toto surget gens aurea mundo,v.9. La razza d’oro e il regno di Saturno identificano la dipendenza da Esiodo. Ma quanto qui va sottolineato è che l’età aurea, o della prima razza, ridetta da Virgilio ,ripropone come sua caratteristica la generazione spontanea della terra nullo…cultu,v.18  e  ancora :…omnis feret omnia tellus./Non rastros patietur humus, non vinea falcem;/ robustus quoque iam tauris iuga solvet arator;vv.39- 41. Mito di Saturno che Virgilio conferma nell’altrettanta visionarietà dell’ Eneide che vuole questa volta non il puer dell’ecloga ma lo stesso Augusto come colui che ripristinerà il regno di Saturno: …aurea condet / saecula qui rursus Latio, regnata per arva /Saturno quondam,6,791- 793. Il mito ora palesemente politico  identifica anche l’antico popolo dei Latini come Saturni gens , il dio da cui derivano i principi di giustizia (7,202-204),e del dio è esaltato  il regno di pace:aurea, quae perhibent, illo sub rege fuerunt / specula: sic placida populos in pace regebat,8,314-315. Abbondanza spontanea, giustizia, pace sono proprio i caratteri che presentano tutti quei miti , anche appartenenti a popoli diversi , che rivendicano all’origine dell’uomo un’esistenza ‘paradisiaca’.[13]

E nella temperie augustea così ripetono anche Tibullo  ( 1,3,45-46), Orazio (epod.16,35-36 e 49), con la sua proiezione escatologica delle incantate Isole Fortunate, cui non è estraneo l’influsso delle isole dei Beati ricordate già da Pindaro,(Ol.2, 70-71 )e , con abbondanza descrittiva ,anche Ovidio ( met.1, 89-112 ) .

Di qui le notissime riprese ad es. di Dante ( Pg. 22,148-150;e 28,139-144   e la formula Saturnia regna riportata in Monarch. 1,11,1) Petrarca , Poliziano St.1,20-21( ‘né del giogo doleasi il toro),   Tasso ( particolarmente il I Coro dell’Aminta), per citare gli autori che a loro volta creano la tradizione secolare, –  senza qui distinguere peculiarità e incidenze minori [14] -,  e rilanciano l’ immagine del mito , così come era stato nel mondo antico: come aspirazione rivolta al passato o proiettata nel futuro con caratteri escatologici o ridisegnata per un sogno politico volto al presente.

Né va tralasciato di osservare  che i caratteri dell’età dell’oro – fra cui, naturalmente, la spontaneità della produzione della terra-,entrarono a far parte anche della descrizione dell’età delle origini  resa  da Seneca nella celebre epistola 90. Ma qui i caratteri idillici sono sostenuti a livello ideologico dalla congregatio naturalis  postulata dagli Stoici come innata nell’uomo .L’uomo è sociale animal . L’afflato della congregatio naturalis ,  supera nei valori dell’humanitas e del sentimento di comunione umana ( l’uomo è κοινονικον ζώον) la definizione aristotelica dell’uomo ‘animale politico’ (πολιτικον ζώον).

Il  dissenso con Posidonio si limita all’attribuzione, che lo scolarca stoico aveva fatto, della invenzione delle artes ai filosofi. Per Seneca la loro scoperta avviene  in progress  e va attribuita a uomini che diremmo semplicemente ‘di acuto ingegno’ .Comunque il primitivismo che dipende dall’accettazione dell’età dell’oro provoca facilmente il topico attacco alle artes[15]: così avviene nel secondo coro della  Medea, così appare nelle Naturales quaestiones,3, 18.

 2.3  Il  mito corretto : Virgilio georgico e la tradizione.

 

E’ noto il cambiamento di prospettiva che Virgilio adotta nelle Georgiche, addirittura  -viene tradizionalmente messo in evidenza- con effetti diversi tra quanto sostenuto nel I e nel II libro. Ma su questa distinzione interna all’opera , verremo di seguito.

Come premessa va subito compreso che un’ opera dedicata ai campi e all’agricoltura pretende una sua impostazione ideologica, tanto più che sappiamo che essa, come doveva notare Seneca( epist. 86,15),anche se in riferimento all’arte della scrittura, non era certo scritta per essere un semplice catalogo di tecniche agrarie per gli agricoltori. Questo poema didascalico rientrava, a prescindere dai modelli letterari che gli si offrivano[16], nelle finalità di una politica intesa da parte del futuro principe, già però padrone dell’Italia, dopo la guerra di Perugia, all’esaltazione di un sistema economico basato su un ceto di medi proprietari terrieri , che  oltre a costituire la forza del  partito di Ottaviano, rappresentavano la morale più schiettamente romana , da contrapporre ad Antonio e ai suoi costumi orientali. Quella morale degli ‘agricoltori’ per cui  Catone nel suo de agri cultura mi sembra che giunga per essi a parafrasare le celebri parole che  Anfione usava nell’Antiope di Euripide per esaltare l’etica degli studiosi: testo noto  allora a Roma attraverso la traduzione -come si sa – ‘quasi letterale ‘ di Pacuvio .Se Anfione diceva: “ a tali persone sc.agli studiosi mai si accompagna l’esercizio di azioni turpi”,fr.910 N.², Catone aveva sostenuto alla pari per chi professava l’attività dell’agricoltura:minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio  occupati sunt, agr.,praef.4[17].

Anche il de re rustica di Varrone e le sue laudes Italiae (1,2,3-7) rientrano  nell’atmosfera e appartengono all’ideologia politica  che precede già la battaglia di Azio.

Non fa meraviglia quindi che il II libro delle Georgiche  presenti a sua volta le laudes Italiae (vv.136-176) e si concluda con l’elogio della vita campestre (vv.458-540).

Nell’elogio della vita campestre Virgilio riferendosi alla vita dei contadini , e sulla medesima linea di Varrone  che li voleva ultimi rappresentanti della stirpe di Saturno[18]( cfr.r.r.3,1,5), sostiene: aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat, v.538  , riproponendo così con Esiodo l’età del mitico dio ornato ora lui stesso  per riflesso dell’aggettivo aureus, e facendo proprio  il collegamento che la coscienza popolare poneva tra il nome del dio e i sata ,ovverossia i  ‘campi seminati’[19].

Per Igino – poeta tardo da non confondere con tutta verisimiglianza con il bibliotecario di Augusto-l’età dell’oro contempla   gli uomini che ‘passavano la vita a coltivare i campi’,astr. 2, 25.

 Nella contrapposizione città- campagna, già fatta propria dalla diatriba, la vita dei contadini appare al poeta un mito che si fa realtà. Ma i connotati dell’abbondanza, della spontaneità, della produzione : quos rami fructus, quos ipsa volentia rura/ sponte tulere sua, carpsit sc.agricola, si misurano oggi  sul lavoro :agricola incurvo terram dimovit aratro: hic anni labor, hinc patriam parvosque nepotes/ sustinet, hinc armenta boum meritosque iuvencos./Nec requies, quin aut pomis exuberet annus/aut feta pecorum aut Cerealis mergite culmi/ proventuque oneret sulcos atque horrea vincat,2, 513-518.L’atmosfera è la stessa suggerita da Tibullo nella sua rêverie  che riprende le cadenze del mito attualizzandolo e dove il poeta  si fa ‘agricoltore’ e inneggia alla pace e ai valori del lavoro agricolo e della semplicità e della sanità della famiglia (cfr.1,1 e 1,10).

La positività del lavoro ha ancora Esiodo come suggeritore che al fratello Perse  indicava la Città dei giusti cui anche con il lavoro si appartiene, ora che il lavoro è la condizione umana, e rintracciava nei miti la causa  del lavoro:la divinità ha fatto così pagare il prezzo all’umanità per la colpa di Prometeo che rapì il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini, attraverso il famoso vaso di Pandora da cui uscirono i diversi mali per l’uomo. Una colpa e una divinità che impersona la giustizia vendicativa  della mentalità arcaica sono quindi all’origine della fatica del lavoro.

In questa prospettiva del problema non mi appare più –come la tradizione critica vuole- così divaricata la posizione che Virgilio assume nel I libro delle Georgiche da quella che abbiamo letto nel II libro. Anche Virgilio , come Esiodo, cerca una causa del sopravvenuto faticoso  lavoro ( improbus labor[20]) per l’uomo  e insieme una  giustificazione che vorrei dire , in questo caso,redentrice dello stesso. E la presenta appunto nel primo libro ,ad apertura di opera. Anche lui ricorrendo a un mito: prima di Giove e del suo regno non c’erano agricoltori che lavorassero la terra, non c’era proprietà privata …in medium quaerebant, ipsaque tellus/ omnia liberius nullo poscente ferebat, 1, 127-128. Le caratteristiche se non il nome dell’età dell’oro  – che saranno riconfermate nel secondo libro-,sono indicate anche qui. Ma fu Giove stesso a intervenire  per il cambiamento: …Pater ipse colendi/ haut facilem esse viam voluit primusque per artem/ movit agros, curis acuens mortalia corda/ nec torpere gravi passus sua regna veterno,121-124.

Quindi fu un intervento provvidenziale -e con Pater viene evidenziata la provvidenzialità divina-,

a favore dell’uomo quello di permettergli di possedere le artes e insieme quello di  avere come stimolo la sofferenza affinché non fosse nel torpore dell’ozio.

L’intervento della provvidenza divina  richiama facilmente la divinità stoica, cui è anche il nome di ‘natura’. Nella fede in questa provvidenza , nell’antropocentrismo stoico che crede il mondo creato dalla divinità per l’uomo  e tutto finalizzato per lui, Arato, che ad apertura di opera, i Фαινόμηνα, aveva scritto un inno a Zeus sulle tracce di quello di Cleante, aveva immesso nell’età delle origini , l’agricoltura  (vv.110-114)[21],la ‘ madre’delle artes, come Senofonte nell’Economico  la faceva definire da Socrate(5,17) e i ‘campi arati’ divenivano segno della stirpe d’ oro , con eco ampliata dell’elogio di Ciro dei παράδεισιοι da lui coltivati ,Oec. 4,4,13.

All’ispirazione stoica si aggiunge nella teodicea virgiliana , fatto proprio già dallo Stoicismo di mezzo, cioè dello Stoicismo adattato a Roma, anche il disprezzo della più autentica etica romana per l’inertia.Senza dimenticare che un rimprovero all’ ozio, nell’opera dedicata al lavoro, veniva anche da Esiodo, vv. 309-311.  Quindi sotto questo profilo Giove,  -secondo noi [22]– ,avrebbe ragionato e operato secondo l’etica romana assorbita pure dello stoicismo, così come Zeus per Esiodo operava sui valori, riconosciuti dalla sua etica, della Nemesi.

Il fatto che il lavoro provoca fatica quindi sofferenza, si raccorda nell’etica al principio della sofferenza come stimolo,(che in fondo appariva nella sua prima formulazione già in Eschilo[23]) -,  che era propriamente sviluppato dallo stoicismo, così come argomenta Seneca nel suo de providentia: patrium deus habet adversus bonos viros animum, et illos fortiter amat et:’ operibus, inquit,doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robus’, 2,6, passo cui segue, con l’esemplificazione di Catone, il topos   dello spettacolo offerto alla divinità dallo stoico in lotta  con le avversità, ib.2,8 [24]. Minucio Felice porterà dentro l’etica cristiana questo stesso pulchrum spectaculum, Octav. 37.

 

Ma il significato specificamente etico del lavoro opposto all’ozio come detto da Virgilio  lo ritroviamo   specificamente  in Giordano Bruno  nello Spaccio della Bestiatrionfante, dove il rigetto dell’amoralità dell’ozio o meglio dell’’ ocio’ contesta proprio l’età dell’oro del mito ‘ ne l’età dunque dell’oro per l’ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose…onde sempre più e più per le sollecite e urgenti occupazioni allontanandosi dall’essere bestiale, più altamente s’ approssimano all’essere divino’ 3,9 .[25]Bruno, nella Cena delle Ceneri a suffragio del concetto’ se la fatica è tanta,il premio non sarà mediocre’ cita testualmente, nel secondo dialogo, il passo del primo libro delle Georgiche,sopra ricordato (cfr.vv.121- 124), dove è detto l’intervento che  la divinità in quanto pater opera a favore dell’etica umana, dando loro la fatica del lavoro dei campi.

Se Bruno rispondeva alla visione oziosa dell’età dell’oro  ripresentata allora da Torquato Tasso nel  primo coro dell’Aminta, si può  osservare  che  sulla condanna all’ ozio  e sul significato etico del lavoro interveniva di lì a poco anche Tommaso Campanella,  nella sua Città del sole. Ma non si tratta  ,non dobbiamo dimenticare ,di sola eredità pagana. In realtà per la valenza redentrice del lavoro dobbiamo risalire fino  alla Bibbia  dove  il lavoro – come è noto- si presenta  per Adamo cacciato dal Paradiso con le caratteristiche della fatica  ma anche con il significato per ciò stesso  di redenzione, come sottolineavano con forza ,già nel IV- V secolo, ad es. Agostino ( Ps.26 Sermo II 13) e il Crisostomo( Jo.hom 45,1),  e  più tardi confermava la Regola di San Benedetto che fece scuola nel Medio Evo  con la  formula:ora et labora.

Per quanto riguarda più precisamente l’agricoltura- che costituisce il centro della nostra indagine-  non va tralasciato di osservare che essa era già stata prevista da Dio nell’Eden ‘Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden,perché lo coltivasse e lo custodisse’, Gen. 2,15.

E Mosè Maimonide, nel XII secolo, il filosofo ebreo ,nato a Cordova,teorico della compatibilità  tra fede religiosa e razionalità, nella sua ricostruzione delle età e dei profeti aveva fatto di Adamo, richiamandosi alla religione Sabea, proprio un profeta inventor della coltivazione dei campi, e  autore di trattati  in materia,Morech nebuchim (La Guida dei perplessi) III cap. 29. Non è da sottovalutare forse che la valorizzazione di questa tradizione da parte del Maimonide  possa essere connessa con il fatto che, con le crociate, agli ebrei era stato vietato tra l’altro il possesso dei terreni, tranne ,in un primo tempo, proprio in Spagna, dove l’agricoltura era avanzatissima.

Molteplici quindi le suggestioni che potrebbero aver influenzato Anton Francesco Doni , quando attribuisce l’ agricoltura all’ età delle origini : si legge nel Ragionamento di diverse età del mondo incluso nella prima edizione dei Marmi: ‘ciascuno sc. nella prima età , lavorava un pezzo di terra ed era sua, piantava i suoi olivi, ricoglievano il frutto, vendemmiava le sue vigne, segava il suo grano, allevava i suoi figlioli, e finalmente viveva del suo giusto sudore e non beveva del sangue dei poveri ‘.

Ma nel suo caso non tralascerei di tenere in conto l’influenza che potrebbe aver svolto su di lui la lettura dell’Utopia di Tommaso Moro, dove l’agricoltura svolge la funzione di ‘arte’ comune e di base  economica e etica per tutti gli abitanti dell’isola di Utopia, che lui stesso aveva   edito nella traduzione del Lando,  e su cui aveva basato già la ricostruzione sociale utopica svolta ne  I Mondi.

In queste prospettive,che nobilitano la società agraria ,di conseguenza è condannato l’ozio. Non diversamente si esprimeva anche Ludovico Agostini, facente sempre parte degli utopisti e riformatori sociali del ‘500 sopra ricordati, nella sua Repubblica immaginaria.

  

3 La rivisitazione  di Lucrezio

Se le linee del pensiero pagano   da definire ‘religioso’e quello cristiano si uniscono , nel corso dei secoli, per esaltare il lavoro e più in particolare, sotto il suo profilo economico più antico, l’agricoltura, non è mancata in tal senso  anche una rivisitazione del testo  di Lucrezio.

Desidero soffermarmi soprattutto sulla presenza  di Lucrezio nella ricostruzione della storia delle origini da parte di Vico[26]. Essa è rivendicata per quanto riguarda  l’’errare ferino’ dei primi uomini i ‘bestioni tutto stupore e ferocia’, Sn 25 c.13 p.984 e per la promiscuità sessuale .Lucrezio aveva scritto: at genus humanum multo fuit illud in arvis/ durius, ut decuit,tellus quod dura creasset,/ et maioribus et solidis magis ossibus intus/ fundatum , validis aptum per viscera nervis/,5,925-927 e quindi aveva soggiunto:volgivago vitam tractabant more ferarum, ib.,v. 932 .Concezione evoluzionista del genere umano presente anche in Diodoro Siculo che parla di θεριωδης βιος  cfr.1,8,1, fatta risalire per lo più dalla critica a Democrito e comunque  ammessa come generalmente diffusa nel I sec. avanti Cristo, sicché essa si rintraccia  facilmente anche altrove, come vedremo di seguito. Diodoro è più volte citato anche da Vico. Lucrezio  aveva poi sottolineato: et Venus in silvis iungebat corpora amantum;/conciliabat enim vel mutua quamque cupido,/ vel violenta viri vis atque inpensa libido,/ vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta, vv .962-965.   Nelle lingua di Orazio la sessualità promiscua della prima età verrà identificata con  incerta venus , sat. 1,3,vv.99- 114 e con  concubitus   vagus, ars 398, ( l’opera è ben nota al Vico[27]) espressioni che ricordano da vicino   Lucrezio quando consigliava di non innamorarsi ma di usare di una volgivaga venus( 4, 1071).  Vico affermava per la sua umanità post diluviana : ‘truoverassi che le razze….essendosi sperdute, con un errore o sia divagamento ferino, dentro la gran selva di questa terra, per inseguire le schive e ritrose donne, per campar dalle fiere…e sì sbandati, per truovare pascolo e acqua,…essendo andate in uno stato di bestie ( Sn 44 vol 1 c. 13 p. 423) ; e ancora: il genere umano…con l’error ferino…si era propagato per terra,Sn44 vol. I c. 20 p. 430, fermati dal loro divagamento ferino…sparsi e dispersi per la gran selva della terra,ibid. c. 22 p. 430 il vezzo bestiale d’andar errando da fiere, ibid., c. 504 p. 644.

E quindi sui primitivi  ‘gentileschi ‘all’origine smisurati come giganti:’gli autori dell’umanità gentilesca dovetter essere uomini delle razze di Cam, che molto prestamente, di Giafet, che alquanto dopo, e finalmente di Sem…..coi concubiti incerti, e con un ferino error divagando per la gran selva della terra’.Sn 44 c.369 p.564.

E sui concubiti ancora ,oltre i passi che descrivono ogni volta lo ‘stato dell’infame comunione delle donne ‘Sn.44 c. 688, p. 761,  il nefas con cui sono colpiti nel  De uno universi iuris principio et fine uno ,cap.104.

Sul  concubitus vagus dello stato di natura, espressione oraziana ridetta dal Vico nella Giunone in danza  , v.765 – su cui torneremo- , si era pronunciato già S. Tommaso nella Summa Teologica, 2a-2ae, Qu.154 [28]  .

Ma Vico , a prescindere da echi non solo – come abbiamo visto- lucreziani non si trova in ogni caso nella stessa posizione di Hobbes  sostenitore anch’egli come Lucrezio della ferinità del genere umano delle origini .Infatti l’autore del Leviathan affermando che al bellum omnium contra omnes   dello stato di natura gli uomini dànno un termine per garantirsi l’ autoconservazione (1,14, 64)  non fa altro- in maniera molto più aderente fin qui all’ideologia sociale del testo latino ,- che riproporre la formula con cui Lucrezio -come abbiamo visto- traduceva Epicuro  a proposito dell’avvenimento del patto del  nec laedere nec violari.

Vico sostiene invece la presenza già nei primitivi  – sia pur sempre tenendo conto della distinzione tra ‘popol di Dio’ e ‘gentili nazioni ‘- di ‘semi di verità’ e ‘semi eterni del giusto’, Sn 25 c. 49 p.1010, – e nel De uno  sono proprio le communes aeterni veri notiones causa della socializzazione dell’uomo( cap. 1)- e sempre sostiene  l’agire della Provvidenza nella  storia ideale e eterna. Niente di più lontano dalla dottrina materialista di Lucrezio  del diritto posto per convenzione e che nega ogni provvidenza .E per quest’ultimo punto sia che–  secondo le due note  storiche e  linee critiche- si interpreti  la provvidenza vichiana come immanente, sia tanto più se intesa  ricca di un significato metafisico.

Mai comunque  Lucrezio avrebbe condiviso l’ ‘evidenza’ della Degnità del Vico così espressa. ‘l’uomo…da Dio è aiutato naturalmente con la divina provvidenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia’, Sn. 44,c.136 p.497.

Il fatto è che  Vico assorbe la visione lucreziana dentro  la fede cristiana .Il suo tentativo di fusione tra l’antropologia di Lucrezio e la dottrina cristiana del dio presente nella storia, si allinea al più celebre tentativo portato avanti da Gassendi, per quanto concerne l’interpretazione atomica del cosmo  dentro i confini della Rivelazione biblica[29]. Ma  Vico non è il solo e non il primo a coniugare insieme età ferina dell’uomo e provvidenzalità che agisce nella sua storia. Vico ha come suggeritore – e questo mi sembra che non sia mai giustamente stato  rilevato –  Cicerone stesso che nel momento in cui accettava la scientificità dell’evoluzionismo  lo riportava dentro la fede in una predisposizione innata nell’uomo  -diciamo- alla sua umanizzazione . Una posizione quella del Vico confrontata con quella di Hegel  quando sancisce in maniera illuminante “umanità animalesca è tutt’altra cosa che animalità”[30]. Cicerone ritornava sulla questione sia nel più antico de inventione, per cui non si può presupporre alcuna influenza della lettura di Lucrezio, sia nella pro Sestio,91, sia nel de oratore 1,33 -di cui forse solo quest’ultima più prossima-per quanto è dato sapere sulla data di morte del poeta -, al momento in cui Cicerone preparava l’editing del poema. Riporto il più articolato testo del de inventione , sia per mettere in evidenza una possibile lettura da parte di Vico , come da parte di altri moderni,  per i quali è stata messa in rilievo la sola presenza lucreziana [31],e su cui verremo di seguito: nam fuit quoddam tempus cum in agris homines passim bestiarium modo vagabantur et sibi victo fero vitam propagabant, nec ratione animi quicquam, sed pleraque viribus corporis administrabant; nondum divinae religionis, non h umani offici ratio colebatur, nemo nuptias viderat legitimas, non certos quisquam aspexerat liberos, non ius aequabile, quod utilitatis haberet, acceperat….Quo tempore quidam magnus videlicet vir et sapiens cognovit quae materia esset et quanta ad maximas res opportunitas in animis inesset hominum, si quis eam posset elicere et praecipiendo meliorem reddere; qui dispersos homines in agros et in tectis silvestribus abditos ratione quidam compulit in unum locum et congregavit et eos…deinde propter rationem atque orationem studiosius audientes ex feris et immanibus mites reddidit et mansuetos,1,2.

La conciliazione di ferinità e divinità provvidente si legge   comunque già nel de rebus naturalibus et  divinis di Lorenzo Buonincontri  , 3, 749-765, dove la divinità interviene per dare  aurea saecula  con ‘giustizia’ e ‘are’  e arti, dopo che gli uomini allo stato di natura sono stati definiti feris similes [32].

Così come la materia et ad maximas res opportunitas , dette nel de inventione   , riprese nella pro Sestio  con perspecto genere humanae docilitatis et ingeni, lasciano traccia nel passo del Piccolomini quando nei ‘poco men che fiere’ ammette ‘quelle faville della giustizia che naturalmente l’huomo ha nel petto’,( Venetia ,appresso P.Ugolino 1594,cap.4 p.30)[33]. Ad indicare la suggestione ciceroniana la presenza dell’ευεργέτης che le scopre e le riconosce ridetto con ‘ i più prudenti et eloquenti’,ib. e che riprende la ratio atque oratio del de inventione, testo in cui si esalta parallelamente il valore dell’eloquenza come medium associativo[34]. Un punto che Cicerone ribadirà nel de natura deorum: haec ( sc. eloquentia) vis nos iuris legum urbium societate devinxit, haec a vita immani et fera segregavit, 2,148.

 

 Piuttosto sottolineerei l’influenza di Lucrezio per quanto riguarda la fase successiva allo stato di natura. Il poeta latino poneva  i connubi  ‘certi’ (mulier coniuncta viro concessit in unum/ <coniugium>…/prolemque ex se videre creatam sc.patres, vv.1012-1013),  e l’agricoltura – come abbiamo visto- tra i segnali della seconda fase, quella che chiude la fase della ferinità, e che è quella definita in termini felici.

Il filosofo italiano infatti  nel suo opus maius dà come segnali della nuova fase , che diremmo degli  albori della civiltà,i matrimoni e l’agricoltura, a cui aggiunge, per la fede cristiana, la religione e l’inumazione dei cadaveri, Sn 44 ,1,c.13p.423 Ma già prima  , nella Giunone in danza aveva modo di indicare: “mossi da tèma o da vergogna / de la venere ferina in faccia al cielo,/ pentiti del comun brutale errore,/ presa ciascun per sé sola una donna…./ si fermaro de’ monti,/ dove loro mostrò Diana i fonti,/ e quivi con le lor donne pudiche / fondaro le famiglie, e poi le genti/ fabbricaro le piccole cittadi, / cui con l’aratro disegnaro le mura/, il concubito vago proibiro / dier leggi a mariti/ e l’intagliaro nel rovere le leggi:/ e questa fu prima sapienza in terra, / onde è venuto in questo culto il mondo ( vv.751-769). Di seguito Vico specificava che le prime ‘leggi umane’furono ‘le leggi dei campi’ date dall’alma Cerere [35]. Nel  de costantia iurisprudentis, seguendo una distinzione dei poeti ‘eroici’ tra il ‘secol d’oro’ e ‘di ferro’ , dice che gli agricoltori furono gli eroi del primo e i guerrieri del secondo 31,1. Saturno, che iniziò la civiltà rurale del Lazio, assurge a simbolo degli eroi dell’agricoltura [36].

Nel riconoscimento dell’agricoltura come ars cui si affianca la fondazione delle città e quindi i connubia/…leges et ..templa Vico è anticipato ancora da un autore del ‘500,  il Pontano, Urania 1,1174-1175.

Non meno valida  nei confronti  dell’agricoltura la testimonianza posteriore di Rousseau  che la definirà : “la prima vocazione dell’uomo che richiama allo spirito un’idea piacevole e al cuore tutto il fascino dell’età dell’oro”  , La nouvelle Héloise, 2, p.603[37] . E se l’età dell’oro – è detto altra volta-  essere solo una chimera (Dernière Reponse , 3,80), Rousseau propone come fine da raggiungere i modi della già felice età patriarcale: l’età che rappresentò ‘il giusto mezzo tra l’indolenza dello stato primitivo e la frenetica attività del nostro amor proprio’( Discours sur l’origine  de l’ inegalité parmi les hommes,  3, 169) , e questa seconda età si basava su un’economia esclusivamente agricola: quand l’agricolture étoit en honneur, il n’y avoit ni oisivité et il avoit beaucoup moins de vices( Dernière,ib.).

 

Al termine di questa indagine si può quindi constatare come i ‘campi arati’, nella ricostruzione della storia dell’uomo , siano stati fatti segno sia della fatica del lavoro che succede all’ età dell’oro , anzi ne individua la fine,    sia   proprio della mitica età dell’oro    vagheggiata pure nel presente e per il futuro. Come pure comunque sono stati fatti segno anche d’una età lontana , corrispondente a una seconda fase ,creduta solo felice,  che succede in un modo o nell’altro allo stato naturale.

Eppure  il separatismo intellettuale tra il lavoro della mano e della mente – che scende giù fino all’antica disputa tra Anassagora e Aristotele resa nei termini : l’uomo è tale perché ha la mano oppure è la sua sapienza umana gli ha dato l’uso della mano ( Arist. Eth.Nic. 10,7) –  ha usato ancora del segno dei ‘campi arati’ , per fissare un   discrimen, che ha continuato a fare storia , anche fuori dalla pagina scritta [38].

Nel de re publica Cicerone scrive: mihi Platonis illud,seu quis dixit alius, perelegans esse videatur:quem cum ex alto ignotas ad terras tempestas  et in desertum litus detulisset, timentibus ceteris propter ignorationem locorum,animadvertisse dicunt in arena geometricas formas quasdam esse descriptas, quas ut vidisset, exclamavisse ut bono essent animo; videre enim se hominum vestigia; quae videlicet ille non ex agri consitura quam cernebat, sed ex doctrinae indiciis interpretabatur,1,29 [39].

emanuela andreoni  fontecedro


[1] Non c’è vera e propria incongruenza come da qualcuno  rilevata- con quanto sostenuto sopra circa l’abbondanza con cui la natura produceva ghiande e corbezzoli. Per motivi diversi  si può facilmente presupporre ( malattie, debolezza causata dall’età ecc.) potevano non usufruirne .

[2] Così vorrebbe secondo una tradizione critica  G.Sasso,Lucrezio e la doppia nascita del diritto,”La Cultura” 1977, p.169.

[3] Intendo praemia vitae con C.Bailey ( comm.ad l.,New York 1947 ,repr.1998) : ‘the ill-gotten gains of the  injust’.Senza quindi alcuna accusa nei confronti delle pene che  le leggi implicano. Il merito riconosciuto apertamente da Lucrezio al diritto e alle leggi che pongono così fine alla violenza e alla inimicitia venutesi a creare nella terza fase , sarebbe annullato da interpretazioni diverse.

[4] Tralascio le diatribe su questo punto già risolte peraltro, ritengo, da Sasso, cit.

[5] Sulla ‘ musica’ considerata da Democrito invenzione avvenuta quando i ‘bisogni necessari’ sono soddisfatti e con specifico riferimento a Tibullo e all’ agricola protagonista della sua ricostruzione storica, Cfr.B.Bilinski,L’antropologia culturale in Tibullo,Atti del Convegno Internaz.di Studi su Albio Tibullo, Roma – Palestrina 10 -13 maggio 1984, Roma 1986, pp.184-189.

[6] L’originalità certa di Teocrito è puntualmente sottolineata da Palumbo Stracca nella perspicua introduzione del testo da lei curato:Teocrito Idilli e Epigrammi,Milano 2001, 4,pp.12-14.

[7] Sul  valore dato alla voluptas in questo finale di libro bene ha visto D. J.Furley, Lucretius the Epicurean.On the History of Man, in Lucrèce, Entr.Fond.Hardt,Vandoeuvres- Genève , vol .XXIV ( 1977), pp.22-27.

[8] Sul termine μουσική, anche più ampio del solo nesso poesia-musica, fino a recepire il significato di ‘arti liberali’, ho avuto modo già di soffermarmi in Il dibattito di vita e cultura, Roma 1981, p.53e 119.  La comprensione della vasta semantica del termine greco e il suo riflesso allusivo, appartiene a tutta la cultura classica.

[9] Cfr. E. Andreoni Fontecedro,Enc.Virg.  vol I ( Roma 1984  )s.v. cosmologia,pp.907-911: la silvestris musa più che la musa epica  ( cfr.Lucrezio 4,589 e 5,1398 agrestis )  può memorizzare le origini dell’uomo. Sul canto pastorale fattore di incivilimento appartenente a una vulgata su Pan cfr. E. Tandoi, Lettura dell’ottava bucolica,in Lecturae Vergilianae, a cura di M.Gigante, vol. I Napoli 1981, p.278.             

[10] La pastorizia come realtà economica che precede l’agricoltura era stata sostenuta da Platone nel Protagora   ,discorso in cui Lucrezio non entra. Il carmen bucolicum  e la vita dei pastori segno dell’età aurea sono indicati da Donato, Scholia Bernensia ad Virgili Bucolica atque Georgica, ed.H.Hagen Leipzig 1867 ( Hildesheim 1967), p.72.

[11] Who invented the Golden Age?,”Class.Quat.”  46 (1952),pp.83-92.

[12] Trad.di F.Codino, Le Opere e i Giorni, Roma 1977.

[13]  M.J.Bénéjam-Bontems, Age d’or,in Dictionnaire des Mythes Littéraires, Le Rocher 1988, pp.52-56.

[14] Per un’ampia e particolareggiata disamina cfr. G.Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana Bari ,1972,cui si rinvia anche per le puntuali citazioni della ripresa del Petrarca nell’ottica della renovatio rerum, 15-20.

[15] Noto è il protrarsi di questo atteggiamento  che anima il I Discours di Rousseau ( Discours sur les sciences et les arts, pt.2 )  , come il  II Discours  sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes(pt.2.) .Ogni confronto comunque tra Seneca e il filosofo ginevrino deve tener conto della non accettazione da parte di quest’ultimo del principio stoico della congregatio naturalis e di quanto ne deriva.

[16]16 Mi riferisco particolarmente ai Γεωργικά di Nicandro.

[17] Ritengo riduttiva l’interpretazione tradita del passo, che identifica nell’espressione catoniana  , senza alcuna possibile allusività culturale ,coloro che sono fedeli all’ordine costituito. Comunque, anche in questo caso, Catone potrebbe aver ‘ridotto’ entro i confini della sua etica il più universale discorso di Anfione.

[18] L’espressione varroniana eos solos reliquos esse ex stirpe Saturni regis, rr.  3,1,5, richiama quella testimoniata per certo Menandro di Eraclea  vissuto nel II secolo a.C. : agricolas ipsos unos esse reliquias ex stirpe Saturni , Ps Plut.pro nobilitate ,20.

[19] Cfr. A.Barchiesi,Lettura del secondo libro delle Georgiche,in Lecturae Vergilianae, cit., vol.II Napoli 1982, p.52. L’ etimo di Saturno‘a satis’ è confermato da August.,civ. Dei 7,102. Trasparente il collegamento di Saturnus con sator e serere  una volta interpretato entro la semantica latina, rimane la supposizione di un nome di divinità etrusca,cfr.M.J.Bénéjam-Bontems,Saturne,in Dictionnaire cit.,p.1209.

[20] Intendo improbus, non solo nel significato di durus , aggettivo che abbiamo visto sopra Lucrezio attribuisce al labor dell’agricola ma anche nell’intensità semantica che l’aggettivo acquista nell’area sua propria giuridica.E’ un modo di pensare anche attuale quello che vuole la fatica del lavoro dei campi cui non ‘ è resa giustizia’,  nel senso non dovutamente ‘remunerante’.

[21] Sulla innovazione di Arato cfr. Bilinski, op.cit.,pp.176-179.

[22]  Non si tratta di  divinità ‘maligna’ come voleva E. Paratore , Le Georgiche, libri I e II, Milano 1962,6, ad l.  su cui interveniva già E.Castorina, Sull’età dell’oro in Lucrezio e Virgilio , in Studi di storiografia antica in memoria di L.Ferrero, Torino 1971, p.109 ,che però si limita a sostenere ‘la ragione del mutamento non riesce chiara’

[23] Celebre il principio sintetizzato con πάθει μάθος, Ag. 177.

[24] Allo spettacolo offerto dallo stoico in lotta , in diverso contesto, si riferisce anche Varr.(SVF 3, 569).

[25] Cfr.A. Negri, Giordano Bruno e l’elogio delle mani,   www.nextonline.it/ archivio/ 12/16.htm,pp.1-5.

[26] Le citazioni  della Scienza nuova per le edd. del 1725 e del 1744 sono fatte secondo l’ed. a cura  di A. Battistini, Milano 1990, come pure delle poesie qui citate. Le opere giuridiche secondo l’ed. a cura di P. Cristofolini, Firenze 1974.

[27] Vico tradusse l’Ars poetica e nel De uno universi iuris principio et fine uno, tiene presente proprio il passo che ricostruisce la storia delle origini,cfr. supra.

[28] Cfr.A.Pons, Il rossore, di cui certamente niuna fu mai al mondo nazione che non si tinse…,in Il corpo e le sue facoltà.G.B.Vico, a cura di G.Cacciatore,V.Gessa Kurotschka,E.Nuzzo,M.Sanna e A.Scognamiglio in “Laboratorio dell’ISPF” (www.ispf.cnr.it/ispf-lab),II, 2005,1,ISSN 1824-9817, p. 284 .

[29] Cfr.Syntagma philosophiae Epicuri, cum refutationibus dogmatum quae contra fidem christianam ab eo asserta sunt,

Amstelodami 1684.

[30] Cfr. Pons, op.cit.,p.282 dove è anche il rinvio a G.W.F. Hegel,Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G.Calogero e C.Fatta 1963, vol.I p.164.

[31] Rinvio al notevole lavoro di S. Gambino Longo, La ghianda, l’aratro e la poesia: il modello primitivistico lucreziano nel Rinascimento,in Atti del Convegno ‘ Lucrezio nella modernità’, Milano –Bicocca 2007,in c. di stampa, che ho potuto leggere in copia grazie alla gentile cortesia dell’autrice e che mi ha dato modo di tenere presenti  i testi cinquecenteschi, su cui aggiungo qui le mie osservazioni.

[32] Il testo della Selva Nutriciadel Poliziano cui giustamente Susanna Longo, cit. riconosce influenze lucreziane, suggerisce -anche  per la concomitanza dell’ ‘errare ferino’ ( sine ulla / lege propagabant aevum /passimque/ ferino/ degebant homines ritu, vv. 46-47, con la ‘Poetica’,dono divino perché sia auriga e domina per il genere umano- un confronto ravvicinato con l’Ars poetica di Orazio, dove la poesia segna le tappe del progresso umano,vv. 391-407. Un pensiero già espresso da Aristofane, Rane ,vv.1030- 1036.

[33] Anche più netto si fa il richiamo a Cicerone se scopriamo che è fatto proprio uso del suo linguaggio. Cicerone parla di igniculi e/ o semina virtutis sia nel de finibus ( 5,18 ma anche 4, 18) sia nelle Tusculanae ( 3,2).Nel de re publica Cicerone parla di semina virtutis, con cui intende riferirsi alla ‘giustizia’ 1,41.

[34] Altro dallo specifico merito dell’eloquenza è sottolineato da Lucrezio con  ingenio qui praestabant et corde vigebant ( cit.) , dove il  riferimento è all’intelligenza e al coraggio .

[35] Noto è l’uso diverso che del mito fa Vico nell’opera in poesia e in prosa.

[36] Cfr.Costa, op.cit.,p.180.

[37] Rousseau è citato secondo l’edizione de La Pleiade,Oeuvres complete,  a cura di Gagnebin e Raymond , Paris 1959 -1969 con volume e pagina di riferimento.

[38]  Ricordiamo tra le celebri pagine dell’antichità che sottolineano il separatismo intellettuale , quelle di Platone

( Rep.434 b-c)  e l’epist.90 di Seneca.

[39] Vitruvio attribuisce l’aneddoto ad Aristippo, 6 praef. 1.

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aprile 15, 2012 · 4:08 PM

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