La traduzione impossibile: il testo poetico

La poesia è nei suoni, nelle cadenze che soffondono eco, negli enunciati che hanno abbandonato le frasi, nel subbuglio dei vocaboli fuori linea, la poesia è nell’alone ambiguo che circonda i confini della parola, nell’opacità dei referenti. La poesia svapora tra le lettere dei vocaboli, lungo le immagini ritagliate, oltre la logica dei collegamenti, nei presupposti, nei rinvii. Tutto questo avviene dentro una lingua, nel cotesto che si è assembrato, e in un contesto culturale specifico, anche se, per quanto riguarda il contesto culturale, essa esplode spontaneamente fuori dello spazio temporale ché i concetti – si sa – sono trasferibili mentre a soffrire è proprio la sua specificità, cioè quel cotesto linguistico di cui è emanazione inafferrabile, e solo poco riproducibile, nella copia di qualsiasi traduzione.

Tradurre perciò la poesia sembra volersi dichiarare sconfitti in partenza[1]. Ma proviamo a distinguere tra quanto siamo comunque in grado di ‘ridare’ e quanto va perso ma che tuttavia può essere ‘compreso’ anche a livello di lingua. L’intraducibilità della poesia può essere controllata, anche se rimane sempre nel traduttore che traduce gli ‘immortali’, alla fine della traduzione, un certo senso di insoddisfazione, come una stella cometa la cui luminosità ci ha invaso ed è passata oltre e non abbiamo avuto modo di trattenere.

Tradurre un testo antico, inoltre, presenta difficoltà maggiori rispetto a traduzione di testi contemporanei, quando per esempio entra in discussione la valenza semantica di un vocabolo che, pur lo stesso in latino e in italiano, può non ricoprire a distanza di millenni la stessa area, o quando i referenti non sono più riconoscibili, in altre parole, quando cotesto e, qui, anche contesto sono difficilmente ‘negoziabili’ tra le due lingue messe a confronto. Si tratterà allora, una volta di più, di compensare lo scarto, con le proprietà della lingua d’arrivo: lo spazio di questo ‘adeguamento’ è filtrato dalla cultura del traduttore che consapevole dello scrivere in poesia nella sua contemporaneità, e quindi di come ‘ridare’ poesia a lettori di oggi, deve insieme conoscere a fondo gli stilemi, l’opera, la Weltanschauung dell’autore da cui traduce.

Prenderò in esame (dando ragione di varianti significative del testo) un passo immortale di Virgilio:

Di, quibus imperium est animarum, umbraeque silentes

Et Chaos et Phlegethon, loca nocte tacentia late,

sit mihi fas audita loqui, sit numine vestro

pandere res alta terra et caligine mersas.

Ibant obscuri sola sub nocte per umbram

perque domos Ditis vacuas et inania regna:

quale per incertam lunam sub luce maligna

est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra

Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem (Aen. 6, 264-273).

IL CONTESTO, ovvero il collocarsi preliminarmente del traduttore sulla stessa linea d’onda del poeta

Stiamo leggendo il VI libro dell’Eneide, il libro della catabasi dell’eroe, dove confluiranno le visioni del mito, l’esaltazione di Roma ma anche stoicismo e pitagorismo sorreggeranno il disvelamento della rerum natura, per bocca dell’avo, e nell’atmosfera del sogno, come la tradizione ancestrale, fatta anche propria dal pitagorismo, pretendeva. Questa è l’emozione, entro cui vanno recepiti i versi che esamineremo e che erano preceduti già da un’atmosfera misterica entro cui agiva la Sibilla, tramite per Enea per il mondo delle ombre, cui l’eroe si avvia recando il magico ramo d’oro. Sulla soglia del regno degli Inferi (regno di fantasia che le ‘fabulae’, il sentimento popolare arricchiscono di immagini e personaggi o le stesse descrizioni già rese da altri eroi del mito ne hanno già dato testimonianza letteraria) il poeta si ferma, all’unisono con il suo eroe che procede e, parlando per lui e per sé, invoca gli dei del luogo: scrive una preghiera. La tensione poetica è altissima e la lingua si fa ‘singolare’, cioè nuova, tutta creata dal poeta.

OSSERVAZIONI: sulla via delle scelte

Di, quibus est imperium animarum: Annibal Caro traduceva “O Dii, che sopra l’alme imperio avete”, la lingua odierna sostiene un’espressione equipollente: “cui è il comando/il potere/il governo delle anime”, traduzione che ha ben presente il significato di imperium, proprio ancora dell’età augustea, quando il termine non si riferiva all’organismo che lo esercita[2]. La solennità del momento pretende un registro che scarta la prosaicità più comune, e contemporaneamente va evitato – e questo per chi traduce da un testo classico deve essere sempre avvertito – di rendere ‘stantio’ l’italiano. Se Alfieri traduceva: “Tartarei dei, cui dato è il fren dell’alme”, bisogna tener presente che scriveva nel registro alto della propria epoca. Canali, autore della traduzione moderna dell’Eneide, a mio giudizio più ‘poetica’ tra i traduttori italiani contemporanei, dice con un linguaggio comune della prosa: “Dei, che governate le anime”.

loca nocte tacentia late: un emistichio supremo e in quanto tale non ridicibile. Proviamo. Cosa c’è di perfetto? Allitterazione tra il primo e l’ultimo termine entrambi bisillabi. Stesse consonanti tra il secondo e il terzo: n,c,t suoni che già sono (c, t) nei bisillabi primo e ultimo (naturalmente il suono c non è quello dell’affricata ma della gutturale sorda k). Il quadrisillabo si apre tra tutti bisillabi, adagiandosi sul suono della ‘a’ e l’accento del dattilo fa risuonare distinto il suono in succedersi della n e della t. Notiamo subito che nella resa italiana andrà perso il participio presente ‘tacenti’ che irrigidirebbe l’italiano in una forma disusata. ‘Tacito’ è aggettivo poetico (anche se ha perso la sonorità della n) ma nella sorda t a ‘compenso’ prolunga il silenzio ovattato. L’espressione con tutta probabilità è detta come apposizione a Chaos et Phlegethon (la presenza delle congiunzioni infatti sta distinguendo di volta in volta le presenze invocate). Intraducibile late, che chiudendo il verso, estende i confini della notte. Non trovo avverbio di questa liquida ampiezza, mentre mi accorgo che i nostri avverbi in –mente produrrebbero comunque un effetto non adeguato con un quadrisillabo o simili in fondo al verso. Provo a ‘compensare’, consapevole che deve permanere il suono poetico dei suoni evidenziati, giocando con lo spostamento delle parole per portarle nella stessa evidenza della lingua latina (che non segue nella prosa l’ordine frasale della lingua italiana e quindi è lo scarto da quell’ordine che va notato): la scelta è sempre per un tono alto della lingua che un verso libero moderno sorregga con trasparenza: “luoghi che si distendono/distesi, taciti nella notte”. La preposizione articolata nella ricorda l’allitterazione originaria mentre provoca un’altra allitterazione con la n. Si poteva far uso anche di una ripresa etimologica e dire, piuttosto che ‘si distendono’, ‘si dilatano’. Ma nella mia sensazione il dilatarsi, contiene un’immagine di solo allargamento a discapito di quel senso di quiete che ha il verbo distendersi detto dei luoghi e che il bisillabo late, subito esaurendosi, comunicava. Forse, vorrei aggiungere, dopo aver così riflettuto, ‘estesi’ ridà meglio il senza orizzonte dell’immagine. Caro, nel gusto dell’amplificatio diceva “o nella notte e nel silenzio eterno/ luoghi sepolti e bui”, dove sembra propendere più nettamente con l’‘o’ iniziale per un’interpretazione dell’espressione non come apposizione dei riferimenti a Chaos et Phlegethon. Canali “luoghi muti nella vasta notte”, dove mi piace quell’insistere sul suono ovattato e notturno della ‘t’. ‘Vasta notte’ sembra essere sintagma tratto da Alfieri, o indipendentemente trovato. Certo è che Alfieri mette nella traduzione il testo in subbuglio, quasi lo drammatizza con una sottolineata separazione di invocazioni: “tartarei dei, cui dato è il fren dell’alme:/ e voi, mute ombre dell’immenso Caos;/ e tu, che in vasta eterna notte l’onde/ tacite volgi, o Flegetonte”.

sit mihi fas audita loqui: “mi sia concesso dire quello che ho ascoltato”. Audita, naturalmente indica ‘le cose ascoltate’. Ma è una resa che non è calata nella lingua parlata oggi ma neanche nella prosa scritta, né ha rilevanza poetica. Suona di un classicismo superato. Fas è termine che rientra nella sfera del sacro: riguarda ciò che è ‘lecito secondo il diritto divino’. La resa deve cercare di mantenere questo senso reverenziale. Caro, coerentemente con il gusto della traduzione creativa, assomma nella traduzione il seguente sit numine vestro/ pandere res alta terra et caligine mersas e scrive: “… con pace vostra/ siami di rivelar lecito a’ vivi/ quel ch’ho de’ morti audito”. Alfieri che volge verso una traduzione ermeneutica quando rende audita con “arcani”, traduce: “or tutti,/ del vostro Nume a me propizi, aprite/ per bocca mia gli arcani, in cui sommerse/ giaccion sotterra le segrete cose”. Mentre la traduzione di Canali brilla nel tono dato dalla lingua semplice, pura: “concedetemi di dire quello che udii, e per vostra volontà/ rivelare le cose sepolte nella profonda terra e nelle tenebre”. La traduzione di numine vestro con “con pace vostra” “del vostro Nume a me propizi” “per vostra volontà” dice la difficoltà di abbracciare il significato di numen che diviene sinonimo di ‘dio, divinità’ ma nasce con il valore etimologico dello stesso radicale di nutus, adnuo, per cui è il cenno della divinità consenziente che qui si chiede. Mi soffermo su pandere, per dire che la traduzione con ‘rivelare’ ridà proprio quel significato che l’Ernout[3] sottolinea dicendo che il verbo significa ‘ouvrir en écartant’, a differenza di aperire che indica un ‘ouvrir en otant un couvercle ‘, cioè indica un aprire progressivo. La ‘rivelazione’ è proprio quanto la catabasi dell’eroe, sin dal poema di Gilgamesh, permette all’eroe stesso, l’eletto che giunge a comprendere, squarciato il velo del mistero, l’essenza delle cose. Il testo latino presenta un elemento poetico di non poco conto se si osserva che il sintagma res … mersas viene separato per racchiudere al suo interno alta terra et caligine, quasi a far sentire il tutto inghiottito entro la voragine infera. Lasciare nella traduzione questo dislocamento tra sostantivo e aggettivo dà un andamento proprio di traduzione da testo classico. La traduzione di Canali che è più aderente al testo ha fatto suo comunque il ritmo dell’italiano moderno. Osservo che per caligo si può dare comunemente la traduzione ‘tenebre’, ma si perde quel senso di foschia oltre che di buio che il termine latino porta con sé e che sembra ben adeguato a questo paesaggio sotterraneo.

Ibant obscuri sola sub nocte: la celeberrima ipallage per cui Borges ha definito il verso “insuperado” non trova difficoltà ad essere mantenuta anche in italiano e nella lingua poetica odierna che riesce a mantenere con l’accento, se non la forma,i toni bassi del susseguirsi degli spondei [4]. Se l’aggettivo sola è aggettivo che la lingua d’arrivo può lasciare inalterato (nello spagnolo di Borda, autore di un affascinante romanzo del secolo appena trascorso, ricorre sempre riferito alla notte con estraniante e splendido effetto[5]), tuttavia ritengo che dire la notte ‘solitaria’, sia di eco più vasta. Caro costruisce fuori dal testo latino: “ivan per entro/ le cieche grotte, per gli oscuri e voti/ regni di Dite; e sol d’errori e d’ ombre/ avean rincontri”; Alfieri dice: “per le solinghe tenebre inoltravansi/ dell’ampia Dite entro ai deserti regni, scorti sol da un barlume”. Canali traduce: “andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria/ e per le vuote case di Dite e i vani regni”. L’espressione poetica è avvolgente, anche se aver mutato sola sub nocte in un genitivo dipendente da umbram, spezza, con un intervento raziocinante, le immagini in successione date invece dal testo virgiliano.

quale per incertam lunam sub luce maligna/ est iter in silvis : va subito avvertito che già Servio conosceva la variante inceptam, in luogo di incertam ma preferiva quest’ultima aggettivazione[6]. Di qui si comprende la traduzione di Caro: “allor che scema/ la nuova luna è da le nubi involta”. Alfieri amplificava il testo a proposito delle silvae e preferiva – come già Caro che traduceva “come chi per selve fa notturno viaggio” – la persona del viandante al ‘cammino’ fatto scorgere dal poeta latino: “appunto quale (sc. barlume)/ tra ramo e ramo in denso bosco incerta/ luna mal porge al passeggier”. Canali adegua con linguaggio limpido la traduzione alle immagini virgiliane pur tralasciando non opportunamente di tradurre est: “quale il cammino nelle selve per l’incerta luna/ sotto un’avara luce”. ‘Avaro’ nel senso di scarso, fioco (cui rinvia la chiosa di Servio ad l., a malignus con angustus) conserva il tono della traduzione dal testo classico, e ha un certo fascino, come non può non derivare da una lingua moderna quando si fa agire dalla lingua antica.

ubi caelum condidit umbra/ Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem: si osserva l’allitterazione nel suono sordo e quindi opaco ‘k’, che anche con compenso andrebbe mantenuto, come pure la presenza pesante del nome della divinità tanto più rafforzato dalla posizione in enjambement e che in una poesia moderna data l’opera. Caro traduce, come è nel suo stile, tagliando e ricomponendo “e la grand’ombra del terrestre globo/ priva di luce e di color le cose”. Alfieri rende – e suo è il gusto sempre dell’amplificatio – con “mentr’atro/ sepolto il ciel nell’ombre, infosca e spegne/ i vario-pinti aspetti delle cose”. Canali dice: “se Giove nasconde il cielo/ nell’ombra, e la nera notte toglie il colore alle cose”. Canali ha sostituito una ipotetica, così privilegiata – è noto – nella scrittura morbida di un classicista come Foscolo, alla temporale e conserva giustamente il nome della divinità che, sappiamo, è vero, essere per metonimia il cielo, ma qui caelum compare proprio come l’oggetto dell’azione del dio antropomorfizzato. Come si riscontra nella traduzione moderna il nome della divinità scivola leggero nel verso, forse proprio per il soffuso suono della particella ipotetica che lo precede. Nox atra non presenta l’allitterazione che è in ‘nera notte’ e d’altra parte si potrebbe osservare che la successione nox atra si spegne nell’inversione italiana ‘nera notte’, tanto più che ad atra si accosta immediato colorem, producendo uno scontro efficacissimo d’immagini che si assommano e si negano. Provo a dare una traduzione, convinta che è semplice, comunque, osservare delle discrepanze, delle imprecisioni, mentre è molto difficile scegliere tra le diverse possibilità, comunque valide a livello concettuale e spesso anche a livello di lingua e ognuna può vantare diritti per la scelta finale. C’è poi da aggiungere che il ‘musaico’ come diceva Dante (cit.), cioè il poetico non suona uguale per tutti, tanto più se ci confrontiamo come lettori vissuti e viventi in epoche diverse. Evocare, compensare, usare dello scarto: quanto è importante è comprendere il messaggio che il poeta formula dentro le costanti e le variazioni e le scelte che opera. La resa dovrebbe tendere a raccogliere nella lingua d’arrivo soprattutto le emozioni del linguaggio, il ritmo in questo caso evocativo e misterioso, la cadenza di preghiera,l’ingresso in continuità, quasi estatico,nella narrazione, che cercherò di ridare anche avvalendomi di una costruzione non della prosa ordinaria, che fa sua l’indicazione di poetica moderna che preferisce il verso libero, la prosa con andamento poetico:

Dei, che sulle anime il potere avete, e ombre silenti

e Caos e Flegetonte, luoghi taciti, estesi nella notte,

mi sia permesso dire quanto ascoltato, mi sia permesso, con il vostro consenso,

rivelare cose nella profonda terra e nella fosca nebbia immerse.

Andavano oscuri nella notte solitaria per l’ombra

e per le case vuote di Dite e i vani regni:

quale sotto un’ incerta luna nella fioca luce[7]

è il cammino nei boschi, allora che Giove con l’ombra

ha nascosto il cielo e alle cose la notte bruna il colore ha tolto.

emanuela andreoni fontecedro


[1] Sull’intraducibilità della poesia, si è espresso Dante (Conv. 1, 7). Commenta con finezza la posizione di Dante G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino 1997, pp. 29-30.

[2] È interessante l’osservazione che fa il Folena quando riscontra che nei primi volgarizzamenti il corrispettivo del termine latino imperium è ‘signoria’ (op. cit., p. 44).

[3] Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1967, s.v.

[4] Per il commento di Servio al passo e le diverse riprese, di grande interesse culturale ma non particolarmente funzionali a questo lavoro sulla traduzione, rinvio al mio I moderni e Virgilio,nel sito.

[5] Cfr. il mio I moderni e Virgilio,cit.

[6] Cfr. il mio I moderni e Virgilio, cit., cui rimando anche per le osservazioni a proposito della luce della luna incerta e l’aggettivo malignus, come pure per le riprese-interpretazioni in età moderna.

[7] Per incertam lunam: l’italiano ‘per l’incerta luna’ è recepito anche come complemento di causa, la traduzione con ‘sotto un’incerta luna’ compensa il sub riferito alla notte che va perso, sottolinea incerta con l’articolo indeterminativo, allittera nella nasale recuperata con ‘nella’ che segue.

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